Libertà

Questo blog vuole essere un'antologia sulla libertà. E' dedicato a tutti coloro che credono che la Libertà sia assolutamente necessaria allo sviluppo della nostra civiltà, tormentata ancora da ogni genere di sopruso, guerre, torture e ingiustizie sociali

venerdì 6 giugno 2008

Io, clandestino a Lampedusa

riferimento:espressonline 08/11/2005

di Fabrizio Gatti

Un nome inventato e un tuffo in mare. Non serve altro per essere rinchiusi nel centro per immigrati di Lampedusa. Basta fingersi clandestino e in poco tempo ci si ritrova nella gabbia dove ogni anno migliaia di persone finiscono il loro viaggio e dove nessun osservatore o giornalista può entrare. La via più veloce per infiltrarsi nella Cayenna dell'Unione europea prevede un salto dagli scogli e qualche ora in acqua. Se non si vuole partire dalla Libia e rischiare di affondare con le barche sovraccariche, non esistono alternative. Così ho scelto un nome straniero e uno stratagemma preso in prestito da Papillon, il mitico film del 1973: per fuggire dalla Cayenna, quella vera, Steve McQueen si butta dalle rocce e si affida all'Oceano aggrappato a una zattera di fortuna. Solo che qui lo scopo non è scappare ma farsi prendere. Ed è ciò che mi è successo: ripescato da un automobilista, catturato dai carabinieri sul lettino del pronto soccorso e rilasciato la settimana dopo, la sera di venerdì 30 settembre. Libero, con la possibilità di andare a lavorare in qualunque città d'Europa come clandestino, nonostante i precedenti penali e una condanna nel 2004. Comincia e finisce così il diario di otto giorni da prigioniero nell'inferno di Lampedusa. Il prezzo da pagare per assistere in prima fila a umiliazioni, abusi, violenze e a tutto quanto l'Italia ha sempre nascosto alle ispezioni del Parlamento europeo e delle Nazioni Unite. Ma è anche l'opportunità per vivere l'immane solitudine di uomini, donne e bambini che, nella fatica di migliorare la propria vita, hanno avuto contro il deserto, i trafficanti, le tempeste e adesso che sono sbarcati hanno contro la legge che dovrebbero rispettare.

Venerdì 23 settembre

Il Mediterraneo stasera ha il respiro lento. Sotto il cielo senza luna, l'acqua non si vede. Si sente soltanto il suono, due o tre metri laggiù ai piedi della scogliera. Prima del salto, bisogna sincronizzarsi con il ritmo del mare. Entrare in acqua quando l'onda è più alta, sfruttare la risacca e allontanarsi subito dalle rocce. Uno. Due. Al tre il freddo già avvolge il corpo: da questo momento sono Bilal Ibrahim el Habib, nato il 9 settembre 1970 nel villaggio immaginario di Assalah, distretto di Aqrah, Kurdistan iracheno. Sugli scogli non sono rimaste tracce. Scarpe e calze sono state affondate con quattro sassi. E anche il rotweiler randagio che aveva deciso di seguirmi e passare la sera in compagnia, adesso se ne sta andando un po' perplesso. Bilal non ha molto con sé. Ha addosso pantaloni di tela neri, boxer, maglietta di cotone, una felpa blu, un pile pesante e un giubbotto di salvataggio con una scritta in arabo. Sul petto Bilal stringe una borsa sportiva. Dentro ci sono tre scatolette di sardine 'Product of Morocco', tre panini ormai poltiglia, una bottiglia d'acqua e un paio di vecchie ciabatte di plastica. Ma quella borsa, gonfia d'aria, aiuta soprattutto a galleggiare. È la serata ideale per buttarsi in mare senza essere visti. Nel cielo rimbalzano le luci e i suoni di 'O' Scià', il festival di Claudio Baglioni. Quasi tutti i turisti, gli abitanti e le pattuglie di polizia e carabinieri sono allo spettacolo. E Bilal può nuotare indisturbato fino a un promontorio su cui brillano le finestre di una villa. C'è un andirivieni di ragazzi, auto e scooter. E prima che qualcuno si accorga dell'uomo in mare, passano almeno quattro ore e mezzo.

La gente di Lampedusa e le infermiere del pronto soccorso hanno regalato tutta la loro generosità. Ma adesso Bilal è su una macchina dei carabinieri. I fari illuminano una strada senza uscita accanto all'aeroporto. Poi un cancello sulla destra, decorato dal filo spinato. Apre un carabiniere in tuta antisommossa, anfibi e pistola nella fondina. Saranno le due e mezzo di notte. Anche se per la legge resta un libero cittadino, da qui Bilal non può più andarsene. "Dal pronto soccorso ci hanno consegnato questo", dice al collega il militare sceso dall'auto. Bilal viene accompagnato a testa bassa fino a un piccolo cortile dove aspettano altri carabinieri e un ragazzo con la divisa della Misericordia, l'associazione che ha in appalto il centro di Lampedusa. Il ragazzo offre un bicchiere d'acqua e quattro confezioni di cornetti. Poi toglie da un sacchetto una maglietta di cotone e una tuta da ginnastica: "Mettiti queste che stai più caldo", dice. "Come ti chiami? Da dove vieni?", vuol sapere un carabiniere. "I don't understand", sussurra Bilal, non capisco. La domanda viene rifatta in inglese maccheronico. "Kurdistan? Ma se questo è più bianco di me, come fa a essere curdo?", chiede un carabiniere molto abbronzato. Bilal tiene gli occhi bassi sulle sue ciabatte logore e ascolta le voci. "Un curdo che parla inglese. Sarà. Non è che questo è un giornalista della Cnn infiltrato qui dentro?". "Sì, o magari è un giornalista italiano?". "Ma va', gli italiani non fanno queste cose", risponde la prima voce. Pericolo scampato. "Bilal, you must tell ze verity", urla un carabiniere, devi dire ze verity. "Ze verity, understand? Se no bam bam", e mima gli schiaffi. Verity? In inglese verità si dice truth. Sarà un errore o un tranello? "Bilal vieni", chiama il ragazzo della Misericordia. Trascina un materassino di gommapiuma preso da una pila di materassi. Lo sistema in corridoio, tra una fila di cessi puliti e la porta di un altro gabinetto molto sporco. Poi lo ricopre con un lenzuolo di carta. "Stanotte lo facciamo dormire qui", dice il ragazzo ai carabinieri. Un altro immigrato sta russando, avvolto come una mummia in una coperta. E da una porta semichiusa si intravvedono le sagome di decine di donne stese sul pavimento e un bambino. Quando Bilal torna dal gabinetto, dove è sempre stato seguito da un carabiniere, trova il suo posto occupato. Più di 200 mosche hanno pensato che quel lenzuolo bianco e fresco di cartiera fosse per loro. Ma sono mosche educate. Si alzano quando Bilal arriva e si riappoggiano su di lui soltanto dopo che si è sdraiato. Il tentativo di scacciarle è una battaglia persa. Dal pavimento sale un fortissimo odore di urina. Dal soffitto la luce non si spegne mai. I carabinieri ridono e parlano a voce alta tutta la notte. È difficile prendere sonno. E poi c'è il problema del colore della pelle. Occorre inventarsi una spiegazione credibile prima di domani mattina. Forse questa può andare: Bilal è così pallido perché il papà è curdo, ma la mamma è bosniaca.

Sabato 24 settembre

L'alba si annuncia con un fragore assordante. Nel dormiveglia sembra il rumore di un aspirapolvere. No, forse è una lucidatrice. Ma no, è troppo forte. La puzza risolve il mistero. Sì, queste sono esalazioni di jp, il carburante degli aerei. Ecco cos'è: l'aeroporto accanto. Quando gli Airbus fanno manovra, sparano il getto dei motori dritto dentro le finestre dove dormono gli immigrati. È ancora buio, ma ormai sono tutti svegli. Dalla stanza delle donne escono ragazze eritree o etiopi. Altre appaiono da una seconda porta. C'è anche una donna con il pancione della gravidanza. Il conto è subito fatto: tra teenager e adulte sono quasi una cinquantina. In più Bilal e l'altro uomo che dorme in corridoio. Per tutti c'è un solo water, quattro docce e qualche lavandino. I carabinieri non vogliono che si usino le loro turche, le uniche che profumano di candeggina. Per evitare domande e guai, Bilal finge di dormire. Ma osserva e ascolta. C'è un viavai di carabinieri e qualche poliziotto intorno a lui. Si chiedono se sia davvero curdo. Le ragazze africane passano il tempo ad annodarsi treccine. Una di loro, che non avrà più di vent'anni, ha tutte le unghie smaltate a metà. La parte sopra è abbellita da un leggero velo perlaceo, la parte sotto è cresciuta senza cura. Forse dove finisce lo smalto è cominciato il suo viaggio. Fuori, nel piccolo cortile, pendono scarpe, pantaloni e maglie delle ultime arrivate. Ieri sera sono sbarcati 161 immigrati, poi altri 37, e poi Bilal. C'è un libro del Corano messo ad asciugare al sole. "Bilal", urla forte una voce. "Tu", dice un poliziotto e con la mano fa capire che bisogna seguirlo.

L'ufficio identificazioni della polizia è una grande stanza con quattro scrivanie. Bilal lo fanno sedere in fondo a destra. Di fronte a lui due poliziotti in borghese, un computer e un ragazzo con il volto berbero. È l'interprete: "Parli arabo?", chiede in arabo. "Sì". "Da dove vieni?". "Kurdistan. Ma vorrei continuare in inglese, l'arabo non è la mia lingua, gli arabi hanno occupato la mia terra", risponde Bilal. Scegliere la lingua è il primo nell'elenco dei 'Diritti degli immigrati' scritto su carta della Prefettura di Agrigento e appeso in corridoio. All'interrogatorio si aggiunge una ragazza che chiamano dottoressa e indossa una maglietta mimetica stile esercito americano. Vuole sapere tutto. Bilal racconta di voler andare in Germania. E di essere stato chiuso in un container in Turchia, caricato su un mercantile e messo su una lancia a motore a qualche miglio dalla costa italiana. Poi la lancia si è spaccata, è affondata e Bilal si è salvato a nuoto. Vogliono sapere della scritta in arabo sul giubbotto salvagente. "C'è scritto: La felicità 3. Forse è il nome di una nave", spiega l'interprete di arabo. "Tu sai cosa c'è scritto?", chiede la dottoressa, sempre in inglese. "Sì, as Soror, la felicità: tutti noi siamo venuti in Europa a cercarla". Bilal deve ripetere tre volte la storia del suo viaggio. Cercano di metterlo in contraddizione. Fanno domande tranello: "Se sei curdo, parli urdu". "No, l'urdu è una lingua del Pakistan". Poi si arrabbiano: "Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi", promette la dottoressa. "Ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?", le chiede un poliziotto robusto che si è appena aggiunto al gruppo. Ma forse è solo un modo per capire se Bilal parla italiano e per spaventarlo. L'interrogatorio ritorna subito a un volume più umano. La dottoressa prende il telefono e protesta con la stazione dei carabinieri perché chi ha prelevato Bilal al pronto soccorso non ha scritto il verbale e nessuno sa dove sia stato pescato e chi lo abbia portato nel centro. "Ecco, devi dire al maresciallo che è un coglione", conclude la dottoressa. Dopo l'interrogatorio, bisogna lasciare le impronte digitali. Le dita e il palmo delle mani vanno premuti sul vetro rosso di uno scanner e si è automaticamente schedati. Fuori, 21 teenager aspettano il loro turno. Avranno tra i 15 e i 20 anni, visti insieme sembrano una classe di liceali in gita. Sono tutti di Kerouane, in Tunisia, tutti vicini di casa, tutti partiti con la stessa barca. Bilal non ha il tempo di sedersi accanto a loro. Un poliziotto gli consegna un biglietto con il numero di matricola 001 e lo affida ai carabinieri. Lo portano davanti a un grande cancello verde incorniciato da rotoli di filo spinato. Un altro carabiniere apre il lucchetto, poi sblocca il catenaccio. Subito dopo il cancello si richiude. ……( Continua)

http://www.emigrati.it/Immigrazione/Immigrazione.asp

1 commento:

Anonimo ha detto...

Abbiamo palpebre di barbagianni
e mani artigliate
Le macchie della luna sono prigioni
Vomitiamo l'odio per l'uomo
genuflettendoci davanti a Dio
Calziamo il cuoio delle fedi
su vesti fumigie dell'incendio di Roma.
Girati!
Senti la ferraglia delle truppe stravolte,
moltitudini di carne
che inseguono il niente.
Gerusalemme è ornata
dalle teste degli infedeli
e le lacrime degli eretici
lavano il soglio di Pietro
Il caprone del dissidio è tornato
sui saturi di fame
sulle bocche dei deboli
scarnificate dal dolore
sugli occhi di chi
è divenuto
l'orinatoio del mondo
La cenere di Auschwitz
ancora ci acceca
mentre le ossa dei bimbi
ballano una danza macabra
e i credenti suonano l'orgia
dell'indiffferenza
per allietare il male