Nel 1949, quando la neonata Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong iniziò a reclamare il Tibet come parte integrante del suo territorio. Nell’ottobre 1950 l’esercito cinese penetrò nella provincia occidentale del Tibet chiamata Khan e infiltrò le sue truppe nella regione nord est, Amdo.
Nel novembre 1950, l’allora quindicenne Dalai Lama, assunse i poteri temporali e spirituali del Tibet e inviò nel maggio ‘51 una sua delegazione a Pechino, per avviare trattative con l’invasore cinese.
L’esito di questo incontro fu l’imposizione da parte del governo cinese del cosiddetto "trattato dei 17 punti per la pace e la liberazione del Tibet", con cui si affermava la sovranità della Cina su un Tibet a cui era riconosciuto il diritto a mantenere il suo sistema politico ed economico, nonché il ruolo essenziale affidato al Dalai Lama.
Negli anni seguenti il governo cinese violentò ripetutamente gli articoli di questo già iniquo trattato, fino a trasformare il Tibet in una sua colonia.
Fra il 1954 e il 1959, nelle regioni orientali del Tibet, specialmente nel Kham, sorse un primo movimento di resistenza, per sconfiggere il quale il governo cinese pose in essere un susseguirsi di sanguinose repressioni.
Nel 1959 ci fu la svolta estremista di Mao Zedong che causò una serie di manifestazioni del popolo tibetano in difesa del suo leader spirituale, il Dalai Lama. In seguito al diffondersi di insistenti voci sulle intenzioni cinesi di rapirlo, il Dalai Lama fu costretto a fuggire in India.
Ben presto la situazione precipitò. Il governo cinese reagì con una violenza inaudita, sconosciuta al popolo tibetano.
Venne imposto l'ateismo di Stato, migliaia di uomini, donne e bambini vennero massacrati o imprigionati; migliaia di templi e monasteri vennero rasi al suolo con bombardamenti o riconvertiti in stalle e magazzini.
La società tibetana fu sconvolta da questa opera di sinizzazione, che condusse al divieto perfino di possedere una foto del Dalai Lama, all’imposizione dell'insegnamento della lingua cinese e all'indottrinamento al pensiero maoista, all’arruolamento di tutti gli individui abili in brigate di lavoro e unità di produzione, alla distruzione di quasi tutti i tesori architettonici e artistici della nazione, fino ad arrivare allo sradicamento della classe intellettuale tibetana.
Profughi a decine di migliaia cominciarono a varcare le frontiere dell'Himalaya cercando rifugio in India, nel Bhutan, nel Nepal.
Nel 1962 la Cina lanciò dal Tibet un attacco contro le frontiere settentrionali dell'lndia ed impiantò nei deserti tibetani basi missilistiche nucleari.
Tra il 1959 e il 1965 ci furono diverse deliberazioni dell’Assemblea generale dell’ONU per spingere la Cina a riconoscere il diritto all’autodeterminazione dei Tibet e al rispetto dei diritti umani del popolo tibetano. Per tutta risposta nel 1965 la Cina ribattezzò il Tibet "Regione Autonoma dello Xizang", mentre ampie aree abitate da popolazioni di cultura e tradizione tibetana vennero accorpate alle province cinesi dello Sichuan e del Ch'ing-hai.
Quando a partire dal 1966 la Rivoluzione culturale si estese anche in questo martoriato paese, le famigerate Guardie rosse completarono l’opera di distruzione già cominciata: tappezzando la capitale Lhasa di bandiere rosse e ritratti di Mao, rinominando strade e piazze, distrussero quanto rimaneva dei monasteri e delle istituzioni culturali e religiose tibetane. Furono avviati processi, perquisizioni, sedute di “rieducazione”; i monaci ed i dissidenti vennero incarcerati e torturati. Si calcola che tutte queste misure provocarono la morte di circa 1,3 milioni di persone (circa un quinto dell’intera popolazione). Anche dopo le tiepide aperture seguite alla morte di Mao nel 1976 è proseguita l’opera di cinesizzazione forzata del paese.
Nel 1979 Deng Xiao Ping ha infatti invitato il Dalai Lama a mandare suo fratello in visita in Tibet con l’intento apparente di fargli constatare che le condizioni di vita del suo popolo erano migliorate, ma in realtà per convincerlo a tornare in patria dopo aver rinunciato alle richieste indipendentiste.
Manifestazioni prima di tripudio e poi di ribellione accompagnarono questa visita, con le tristemente consuete repressioni militari.
Negli anni Ottanta il governo di Pechino ha iniziato a organizzare ondate di immigrazione di massa, per le quali nelle città tibetane e nelle sue valli il rapporto fra abitanti cinesi e tibetani è divenuto di due/ tre a uno.
Ciò ha esteso il potere cinese non solo in ambito politico ed economico, ma anche nella vita religiosa e culturale del popolo tibetano. Basti pensare che il cinese è oggi divenuto la lingua ufficiale del Tibet, mentre il tibetano è stato fatto scendere al rango di dialetto, o al fatto che, senza apparente ironia, il regime comunista è arrivato ad arrogarsi il diritto di consacrare i veri Lama reincarnati.
Il Tibet continua a essere il teatro di periodiche insurrezioni contro i cinesi. Nel 1987 e nel 1989 ebbero luogo dimostrazioni anti cinesi su larga scala. Hu Jintao, allora leader del partito comunista a Lhasa e oggi numero uno del regime a Pechino, dichiarò la legge marziale e il massacro dei dimostranti.
Negli anni seguenti il Dalai Lama, dal suo governo in esilio, ha promosso un’innumerevole serie di appelli e meeting, cercando uno spiraglio nella ferrea politica cinese.
Un Piano in 5 punti presentato al Congresso degli USA nel settembre 1987. Una proposta di negoziazione con il governo Cinese presentata nel Giugno 1988 al Parlamento di Strasburgo.
Un appello lanciato nell’ottobre 1991, in un discorso alla Yale University, per un sostegno dell’opinione pubblica internazionale sulla possibilità di ottenere dal governo cinese il permesso di compiere un breve viaggio in Tibet.
Purtroppo sarebbe pleonastico continuare l’elenco: la risposta del governo cinese è sempre stata un secco "No".
La storia del Tibet sta continuando con i recentissimi massacri, arresti e torture ordinati dal governo cinese.
Sembra oggi lecito domandarsi se sarà possibile porre fine a quello che lo stesso Dalai Lama ha definito "il genocidio culturale del popolo tibetano".
Nel novembre 1950, l’allora quindicenne Dalai Lama, assunse i poteri temporali e spirituali del Tibet e inviò nel maggio ‘51 una sua delegazione a Pechino, per avviare trattative con l’invasore cinese.
L’esito di questo incontro fu l’imposizione da parte del governo cinese del cosiddetto "trattato dei 17 punti per la pace e la liberazione del Tibet", con cui si affermava la sovranità della Cina su un Tibet a cui era riconosciuto il diritto a mantenere il suo sistema politico ed economico, nonché il ruolo essenziale affidato al Dalai Lama.
Negli anni seguenti il governo cinese violentò ripetutamente gli articoli di questo già iniquo trattato, fino a trasformare il Tibet in una sua colonia.
Fra il 1954 e il 1959, nelle regioni orientali del Tibet, specialmente nel Kham, sorse un primo movimento di resistenza, per sconfiggere il quale il governo cinese pose in essere un susseguirsi di sanguinose repressioni.
Nel 1959 ci fu la svolta estremista di Mao Zedong che causò una serie di manifestazioni del popolo tibetano in difesa del suo leader spirituale, il Dalai Lama. In seguito al diffondersi di insistenti voci sulle intenzioni cinesi di rapirlo, il Dalai Lama fu costretto a fuggire in India.
Ben presto la situazione precipitò. Il governo cinese reagì con una violenza inaudita, sconosciuta al popolo tibetano.
Venne imposto l'ateismo di Stato, migliaia di uomini, donne e bambini vennero massacrati o imprigionati; migliaia di templi e monasteri vennero rasi al suolo con bombardamenti o riconvertiti in stalle e magazzini.
La società tibetana fu sconvolta da questa opera di sinizzazione, che condusse al divieto perfino di possedere una foto del Dalai Lama, all’imposizione dell'insegnamento della lingua cinese e all'indottrinamento al pensiero maoista, all’arruolamento di tutti gli individui abili in brigate di lavoro e unità di produzione, alla distruzione di quasi tutti i tesori architettonici e artistici della nazione, fino ad arrivare allo sradicamento della classe intellettuale tibetana.
Profughi a decine di migliaia cominciarono a varcare le frontiere dell'Himalaya cercando rifugio in India, nel Bhutan, nel Nepal.
Nel 1962 la Cina lanciò dal Tibet un attacco contro le frontiere settentrionali dell'lndia ed impiantò nei deserti tibetani basi missilistiche nucleari.
Tra il 1959 e il 1965 ci furono diverse deliberazioni dell’Assemblea generale dell’ONU per spingere la Cina a riconoscere il diritto all’autodeterminazione dei Tibet e al rispetto dei diritti umani del popolo tibetano. Per tutta risposta nel 1965 la Cina ribattezzò il Tibet "Regione Autonoma dello Xizang", mentre ampie aree abitate da popolazioni di cultura e tradizione tibetana vennero accorpate alle province cinesi dello Sichuan e del Ch'ing-hai.
Quando a partire dal 1966 la Rivoluzione culturale si estese anche in questo martoriato paese, le famigerate Guardie rosse completarono l’opera di distruzione già cominciata: tappezzando la capitale Lhasa di bandiere rosse e ritratti di Mao, rinominando strade e piazze, distrussero quanto rimaneva dei monasteri e delle istituzioni culturali e religiose tibetane. Furono avviati processi, perquisizioni, sedute di “rieducazione”; i monaci ed i dissidenti vennero incarcerati e torturati. Si calcola che tutte queste misure provocarono la morte di circa 1,3 milioni di persone (circa un quinto dell’intera popolazione). Anche dopo le tiepide aperture seguite alla morte di Mao nel 1976 è proseguita l’opera di cinesizzazione forzata del paese.
Nel 1979 Deng Xiao Ping ha infatti invitato il Dalai Lama a mandare suo fratello in visita in Tibet con l’intento apparente di fargli constatare che le condizioni di vita del suo popolo erano migliorate, ma in realtà per convincerlo a tornare in patria dopo aver rinunciato alle richieste indipendentiste.
Manifestazioni prima di tripudio e poi di ribellione accompagnarono questa visita, con le tristemente consuete repressioni militari.
Negli anni Ottanta il governo di Pechino ha iniziato a organizzare ondate di immigrazione di massa, per le quali nelle città tibetane e nelle sue valli il rapporto fra abitanti cinesi e tibetani è divenuto di due/ tre a uno.
Ciò ha esteso il potere cinese non solo in ambito politico ed economico, ma anche nella vita religiosa e culturale del popolo tibetano. Basti pensare che il cinese è oggi divenuto la lingua ufficiale del Tibet, mentre il tibetano è stato fatto scendere al rango di dialetto, o al fatto che, senza apparente ironia, il regime comunista è arrivato ad arrogarsi il diritto di consacrare i veri Lama reincarnati.
Il Tibet continua a essere il teatro di periodiche insurrezioni contro i cinesi. Nel 1987 e nel 1989 ebbero luogo dimostrazioni anti cinesi su larga scala. Hu Jintao, allora leader del partito comunista a Lhasa e oggi numero uno del regime a Pechino, dichiarò la legge marziale e il massacro dei dimostranti.
Negli anni seguenti il Dalai Lama, dal suo governo in esilio, ha promosso un’innumerevole serie di appelli e meeting, cercando uno spiraglio nella ferrea politica cinese.
Un Piano in 5 punti presentato al Congresso degli USA nel settembre 1987. Una proposta di negoziazione con il governo Cinese presentata nel Giugno 1988 al Parlamento di Strasburgo.
Un appello lanciato nell’ottobre 1991, in un discorso alla Yale University, per un sostegno dell’opinione pubblica internazionale sulla possibilità di ottenere dal governo cinese il permesso di compiere un breve viaggio in Tibet.
Purtroppo sarebbe pleonastico continuare l’elenco: la risposta del governo cinese è sempre stata un secco "No".
La storia del Tibet sta continuando con i recentissimi massacri, arresti e torture ordinati dal governo cinese.
Sembra oggi lecito domandarsi se sarà possibile porre fine a quello che lo stesso Dalai Lama ha definito "il genocidio culturale del popolo tibetano".