Libertà

Questo blog vuole essere un'antologia sulla libertà. E' dedicato a tutti coloro che credono che la Libertà sia assolutamente necessaria allo sviluppo della nostra civiltà, tormentata ancora da ogni genere di sopruso, guerre, torture e ingiustizie sociali

lunedì 30 giugno 2008

Indecente e razzista proposta sui Rom


Bocciati a prima prova d'esame, per loro dignita' uomo vale zero
Roma, 30 giu. (Apcom) - Questa volta tocca al ministro dell'Interno Roberto Maroni a finire nel mirino di 'Famiglia Cristiana': prendere le impronte digitali ai bambini rom è una "'indecente' proposta", sostiene il settimanale dei Paolini.

"Alla prima prova d'esame - scrive 'Famiglia Cristiana' - i ministri 'cattolici' del Governo del Cavaliere escono bocciati, senza appello. Per loro la dignità dell'uomo vale zero. Nessuno che abbia alzato il dito a contrastare Maroni e l'indecente proposta razzista di prendere le impronte digitali ai bambini rom". "Avremmo dato credito al ministro - sottolinea il settimanale nell'editoriale di questa settimana - se, assieme alla schedatura, avesse detto come portare i bimbi rom a scuola, togliendoli dagli spazi condivisi coi topi. Che aiuti ha previsto? Nulla". "Non stupisce, invece - continua 'Famiglia Cristiana' - il silenzio della nuova presidente della Commissione per l'infanzia, Alessandra Mussolini (non era più adatta Luisa Santolini, ex presidente del Forum delle famiglie?), perché le schedature etniche e religiose fanno parte del Dna familiare e, finalmente, tornano a essere patrimonio di Governo. Non sappiamo cosa ne pensi Berlusconi: permetterebbe che agenti di polizia prendessero le impronte dei suoi figli o dei suoi nipotini?".

"Oggi, con le impronte digitali - prosegue - uno Stato di polizia mostra il volto più feroce a piccoli rom, che pur sono cittadini italiani. Perché non c'è la stessa ostinazione nel combattere la criminalità vera in vaste aree del Paese? La Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia (firmata anche dall'Italia, che tutela i minori da qualsiasi discriminazione) non conta più niente. La schedatura di un bambino rom, che non ha commesso reato, viola la dignità umana. Così come la proposta di togliere la patria potestà ai genitori rom è una forzatura del diritto: nessun Tribunale deiminori la toglierà solo per la povertà e le difficili condizioni di vita".

"È giusto reprimere, con forza, chi nei campi nomadi delinque, ma le misure di Maroni non servono a combattere l'accattonaggio (che non è reato). C'è un solo modo - osserva 'Famiglia Cristiana' - perché i bambini rom non vadano a rubare: mandarli a scuola. Qui, sì, ci vorrebbe un decreto legge perché, ogni mattina, pulmini della polizia passassero nei campi nomadi a raccoglierli. Per la sicurezza sarebbero soldi ben spesi. Quanto alle impronte, se vogliamo prenderle, cominciamo dai nostri figli; ancor meglio, dai parlamentari: i cittadini saprebbero chi lavora e chi marina, e anche chi fa il furbo, votando al posto di un altro. L'affossa 'pianisti' - conclude - sarebbe l'unico 'lodo' gradito agli italiani".

http://notizie.alice.it/notizie/politica/2008/06_giugno/30/sicurezza%20%20f%20%20cristiana%20%20indecente%20e%20razzista%20proposta%20su%20rom,15284737.html?pmk=nothpstr1


venerdì 27 giugno 2008

Impronte digitali

ROM/ MIGLIORE: ITALIA NON SIA PRIMA NELL'UE A FARE LEGGI RAZZIALI
Proposta impronte digitali è spregevole

Roma, 26 giu. (Apcom) - "La proposta di rilevare le impronte digitali dei bambini rom, propugnata dal ministro degli interni Roberto Maroni, è espressione di una cultura della discriminazione. Tanto più spregevole quanto è rivolta ai minori e si trincera dietro l'intento di una loro tutela. Non esiste infatti tutela che si realizzi attraverso il rilevamento o l'apposizione di elementi discriminatori". Lo afferma in una nota Gennaro Migliore (Prc).

"Questo governo - prosegue - rivela in modo sempre più eclatante gli aspetti di odio e di paura su cui si fonda. Occorre impedire con la disobbedienza civile questo tipo di abusi che violano i diritti fondamentali delle persone. Per questo ci rivolgiamo in primo luogo ai funzionari dello stato e a tutti i cittadini che credono nei principi di uguaglianza e libertà sanciti dalla Costituzione e li difendono con il loro lavoro quotidiano. Ci rivolgiamo inoltre a tutte le istituzioni internazionali, dall'Unione europea alle Nazioni unite, per impedire che il nostro diventi il primo paese europeo che reintroduce le leggi razziali".
http://notizie.alice.it/notizie/politica/2008/06_giugno/26/rom%20%20migliore%20%20italia%20non%20sia%20prima%20nell%20ue%20a%20fare%20leggi%20razziali,15251316.html

lunedì 23 giugno 2008

Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana

Antonio Brancati

Di anni 23 - studente - nato a Ispica (Ragusa) il 21 dicembre 1920 -. Allievo ufficiale di Fanteria, il 1° marzo 1944 entra a far parte del "Gruppo di Organizzazione" del Comitato Militare di Grosseto, di stanza a Monte Bottigli sopra Grosseto ~. Catturato il 22 Marzo 1944 sul monte Bottigli, nel corso di un rastrellamento di forze tedesche e fasciste che lo sorprendono assieme ad altri dieci compagni nella capanna in cui dormono -. Processato il 22 marzo 1944 nella scuola di Maiano Lavacchio (Grosseto) da tribunale misto tedesco e fascista -. Fucilato lo stesso 22 marzo 1944, a Maiano Lavacchio, con Mario Becucci, Rino Cíattini, Silvano Guidoni, Alfiero Grazi, Corrado Matteini, Emanuele Matteini, Alcide Mignarri, Alvaro Nfinucci, Alfonso Passananti e Attilio Sforzi.

Carissimi genitori,

non so se mi sarà possibile potervi rivedere, per la qual cosa vi scrivo questa lettera. Sono stato condannato a morte per non essermi associato a coloro che vogliono distruggere completamente l'Italia.

Vi giuro di non aver commessa nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all'Italia, nostra amabile e martoriata Patria.

Voi potete dire questo sempre a voce alta dinanzi a tutti.

Se muoio, muoio innocente.

Vi prego di perdonarmi se qualche volta vi ho fatto arrabbiare, vi ho disobbedito, ero allora un ragazzo.

Solo pregate per me il buon Dio. Non prendetevi parecchi pensieri. Fate del bene ai poveri per la salvezza della mia povera anima. Vi ringrazio per quanto avete fatto per me e per la mia educazione. Speriamo che Iddio vi dia giusta ricompensa.

Baciate per me tutti i fratelli: Felice, Costantino, Luigi, Vincenzo e Alberto e la mia cara fidanzata.

Non affliggetevi e fatevi coraggio, ci sarà chi mi vendicherà. Ricompensate e ricordatevi finché vivrete di quei signori Matteini per il bene che mi hanno fatto, per l'amore di madre che hanno avuto nei miei riguardi. Io vi ho sempre pensato in tutti i momenti della giornata.

Dispiacente tanto se non ci rivedremo su questa terra; ma ci rivedremo lassù, in un luogo più bello, più giusto e più santo.

Ricordatevi sempre di me.

Un forte bacione

Antonio

Sappiate che il vostro Antonio penserà sempre a voi anche dopo morto e che vi guarderà dal cielo.



Giordano Cavestro (Mirko)

Di anni 18 - studente di scuola media - nato a Parma il 30 novembre 1925 -. Nel 1940 dà vita, di sua iniziativa, ad un bollettino antifascista attorno al quale si mobilitano numerosi militanti - dopo l'8 settembre 1943 lo stesso nucleo diventa centro organizzativo e propulsore delle prime attività partigiane nella zona di Parma -. Catturato il 7 aprile 1944 a Montagnana (Parma), nel corso di un rastrellamento operato da tedeschi e fascisti - tradotto nelle carceri di Parma -. Processato il 14 aprile 1944 dal Tribunale Militare di Parma - condannato a morte, quindi graziato condizionalmente e trattenuto come ostaggio -. Fucilato il 4 maggio 1944 nei pressi di Bardi (Parma), in rappresaglia all'uccisione di quattro militi, con Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti.

Parma, 4-5-1944

Cari compagni, ora tocca a noi.

Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d'Italia.

Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l'idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella.

Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile.

Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.

La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.

Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.


Bruno Frittaion (Attilio)

Di anni 19 - studente - nato a San Daniele del Friuli (Udine) il 13 ottobre 1925 -. Sino dal 1939 si dedica alla costituzione delle prime cellule comuniste nella zona di San Daniele - studente del III corso di avviamento professionale, dopo l'8 settembre 1943 abbandona la scuola unendosi alle formazioni partigiane operanti nella zona prende parte a tutte le azioni del Battaglione "Písacane", Brigata "Tagliamento", e quindi, con funzioni di vice-commissario di Distaccamento, dei Battaglione "Silvio Pellíco " -. Catturato il 15 dicembre 1944 da elementi delle SS italiane, in seguito a delazione, mentre con il compagno Adriano Carlon si trova nella casa di uno zio a predisporre i mezzi per una imminente azione - tradotto nelle carceri di Udine - più volte torturato -. Processato il 22 gennaio 1945 dal Tribunale Militare Territoriale tedesco di Udine -. Fucilato il 1 febbraio 1945 nei pressi dei cimitero di Tarcento (Udine), con Adriano Carlon, Angelo Lipponi, Cesare Longo, Elio Marcuz, Giannino Putto, Calogero Zaffuto e Pietro Zanier.

31 gennaio 1945

Edda

voglio scriverti queste mie ultime, e poche righe. Edda, purtroppo sono le ultime si, il destino vuole così, spero ti giungano di conforto in tanta triste sventura.

Edda, mi hanno condannato alla morte, mi uccidono; però uccidono il mio corpo non l'idea che c'è in me. Muoio, muoio senza alcun rimpianto, anzi sono orgoglioso di sacrificare la mia vita per una causa, per una giusta causa e spero che il mio sacrificio non sia vano anzi sia di aiuto nella grande lotta. Di quella causa che fino a oggi ho servito senza nulla chiedere e sempre sperando che un giorno ogni sacrificio abbia il suo ricompenso. Per me la migliore ricompensa era quella di vedere fiorire l'idea che purtroppo per poco ho servito, ma sempre fedelmente.

Edda il destino ci separa, il destino uccide il nostro amore quell'amore che io nutrivo per te e che aspettava quel giorno che ci faceva felici per sempre. Edda, abbi sempre un ricordo di chi ti ha sempre sinceramente amato. Addio a tutti.

Addio Edda


Giancarlo Puecher Passavalli

Di anni 20 - dottore in legge - nato a Milano il 23 agosto 1923 -. Subito dopo l'8 settembre 1943 diventa l'organizzatore ed il capo dei gruppi partigiani che si vanno formando nella zona di Erba-Pontelambro (Como) - svolge numerose azioni, fra cui rilevante quella al Crotto Rosa di Erba, per il ricupero di materiale militare e di quadrupedi -. Catturato il 12 novembre 1943 a Erba, da militi delle locali Brigate Nere - tradotto nelle carceri San Donnino in Como - più volte torturato -. Processato il 21 dicembre 1943 dal Tribunale Speciale Militare di Erba -. Fucilato lo stesso 21 dicembre 1943, al cimitero nuovo di Erba, da militi delle Brigate Nere -. Medaglia d'Oro al Valor Militare -. E' figlio di Giorgio Puecher Passavalli, deportato al campo di Mauthausen ed ivi deceduto.

Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato: Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto... Accetto con rassegnazione il suo volere.

Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l'Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che santamente mi educò e mi protesse per i vent'anni della mia vita.

L'amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l'uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia.

A te Papà l'imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti.

Gino e Gianni siano degni continuatori delle gesta eroiche della nostra famiglia e non si sgomentino di fronte alla mia perdita. I martiri convalidano la fede in una Idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la Sua volontà. Baci a tutti.

Giancarlo

sabato 21 giugno 2008

Pensieri di Madre Teresa di Calcutta

1) Non capiremo mai abbastanza quanto bene è capace di fare un sorriso.

2) Assicuratevi di lasciare lavorare la grazia di Dio nelle vostre anime, accettando qualunque cosa egli vi mandi e dando a Lui tutto ciò che Egli voglia prendersi da voi. La vera santità consiste nel fare la sua volontà con un sorriso

3) Non sapremo mai quanto bene può fare un semplice sorriso.

4) L'amore non vive di parole né può essere spiegato a parole.

5) Non possiamo parlare finché non ascoltiamo. Quando avremo il cuore colmo, la bocca parlerà, la mente penserà.

6) Il vero amore deve sempre fare male. Deve essere doloroso amare qualcuno, doloroso lasciare qualcuno... Solo allora si ama sinceramente.

7) Non importa quanto si dà ma quanto amore si mette nel dare.

8) Trova un minuto per pensare, trova un minuto per pregare, trova un minuto per ridere.

9) Quanto meno abbiamo, più diamo. Sembra assurdo, però questa è la logica dell'amore.

10) Trova il tempo di essere amico: è la strada della felicità.

11) La fame d'amore è molto più difficile da rimuovere che la fame di pane.

12) Il vero male è l'indifferenza

13) Perché una lampada continui a bruciare bisogna metterci dell'olio.

14) Più ci saranno gocce d'acqua pulita, più il mondo risplenderà di bellezza.

15) I veri poveri non fanno rumore.

16) Il giorno più bello? Oggi
L'ostacolo più grande? La paura
La cosa più facile? Sbagliarsi
L'errore più grande Rinunciare
La radice di tutti i mali? L'egoismo
La distrazione migliore? Il lavoro
La sconfitta peggiore? Lo scoraggiamento
I migliori professionisti? I bambini
Il primo bisogno? Comunicare
La felicità più grande? Essere utili agli altri
Il mistero più grande? La morte
Il difetto peggiore? Il malumore
La persona più pericolosa? Quella che mente
Il sentimento più brutto? Il rancore
Il regalo più bello? Il perdono
Quello indispensabile? La famiglia
La rotta migliore? La via giusta
La sensazione più piacevole? La pace interiore
L'accoglienza migliore? Il sorriso
La miglior medicina? L'ottimismo
La soddisfazione più grande? Il dovere compiuto
La forza più grande? La fede
La cosa più bella del mondo? L'amore.

17) Quello che noi facciamo è solo una goccia nell'oceano ma se non lo facessimo l'oceano avrebbe una goccia in meno.

18) La peggiore malattia dell'uomo? La solitudine.

19) La vita è un'opportunità, coglila.
La vita è bellezza, ammirala.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne realtà.

La vita è una sfida, affrontala.
La vita è un dovere, compilo.
La vita è un gioco, giocalo.
La vita è preziosa, abbine cura.

La vita è ricchezza, valorizzala.
La vita è amore, vivilo.
La vita è un mistero, scoprilo.
La vita è promessa, adempila.

La vita è tristezza, superala.
La via è un inno, cantalo.
La vita è una lotta, accettala.
La vita è un'avventura, rischiala.
La vita è la vita, difendila.

20) Quello che sorprende gli altri non è tanto quello che facciamo, ma il vedere che ci sentiamo felici di farlo e sorridiamo facendolo.

venerdì 13 giugno 2008

10 megalopoli a effetto serra

di: Italoeuropeo-legambiente

Le 10 metropoli a maggior effetto serra

Bangkok, Giacarta, Lagos, Shanghai, Rio de Janeiro, Dacca, Karachi, Il Cairo, Città del Messico, Mumbai: sono queste le “10 megalopoli a effetto serra” che Legambiente ha indicato tra quelle a rischio per i cambiamenti climatici . Le città nel 2008 ospiteranno più della metà della popolazione mondiale e si troveranno a dover affrontare un forte inasprimento di fenomeni come sovraffollamento, povertà e degrado ambientale. E alcune di queste dovranno fare i conti anche con un crescente rischio legato alle ripercussioni del surriscaldamento del pianeta, come grandi inondazioni, scarsità idrica e desertificazione, cicloni e tempeste.

“Le comunità più esposte sono proprio quelle più povere, dove gli standard delle infrastrutture e dei sistemi di prevenzione sono più bassi e quindi l’intensità dell’impatto dei cambiamenti del clima è più rilevante – ha spiegato Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente -. I Paesi industrializzati, che sono i principali responsabili delle emissioni climalteranti, non potranno più limitarsi a intervenire con aiuti umanitari a valle dei disastri ambientali, ma dovranno farsi carico molto presto degli interventi di prevenzione e infrastrutturazione delle aree più vulnerabili del mondo. Ed è proprio la creazione di un fondo per l’adattamento, creato con i soldi dei Paesi più ricchi, a essere in discussione ai negoziati sul clima in corso a Bali”.

Il IV rapporto dell’Ipcc stima che nella migliore delle ipotesi entro il 2100 la temperatura media mondiale salirà tra 1,1 e 2,9°C, nella peggiore fino a 6,4°C. Nello stesso lasso di tempo il livello dei mari dovrebbe crescere tra i 9 e gli 88 centimetri. Oltre il 75% delle persone a rischio per l'innalzamento del mare vive in Asia, lungo le coste, ma anche in prossimità dei grandi fiumi: i più esposti sono i cinesi, seguiti da indiani e bengalesi. Bangkok, con i sui 9,5 milioni di abitanti, è una delle città a più alto rischio di inondazione perché gran parte del suo territorio è posto tra 1 e 1,5 metri sul livello del mare e l'innalzamento delle acque è di 25 millimetri all'anno, a cui va aggiunto lo sprofondamento dovuto all'uso intensivo delle risorse idriche del sottosuolo. Lo stesso discorso vale per Mumbai in India, Lagos in Nigeria, Giacarta in Indonesia e Shanghai in Cina che è posta nella pianura alluvionale dello Yangtze e Rio in Brasile…(continua)
http://www.ecplanet.com/canale/ecologia-6/inquinamento-50/1/0/37065/it/ecplanet.rxdf

Gli anziani

E' sempre la solita ripetuta affermazione, non per questo meno vera: il progresso tecnologico e materiale delle società "affluenti" non è andato, in tutti i gli ambiti vitali, di pari passo con il progresso morale. Ne è un esempio la condizione degli anziani, che la vita quotidiana dei paesi industrialmente più sviluppati tende a collocare ai margini.
A mio avviso, il problema degli anziani è il più misconosciuto e il più urgente da risolvere dei giorni nostri, è la violenza più artatamente nascosta dalla nostra società, è lo scheletro nei nostri armadi, la menzogna su cui prosperiamo.

Succede che un tipo di società che dà valore alla produttività, alla velocità, alla giovinezza, all'efficienza, al consumo vistoso e immediato, all'individualismo competitivo ed esasperato, al cambiamento costante di gusti e opinioni non può che tendere ad escludere, in modi a volte subdoli e sottili, chi non riesce ad adeguarsi ai valori dominanti.

A parte pochi privilegiati, per reddito, cultura e salute, che occupano un ruolo preminente nella scala sociale, a volte persino eccessivo (occorre guardarsi anche dai pericoli delle gerontocrazie), la maggior parte degli anziani vive una penosa condizione di invisibilità, di mancanza di potere, di emarginazione.

Gli anziani sono lenti nei movimenti, mal si adattano ai vorticosi cambiamenti del mondo del lavoro e alla filosofia produttivistica delle aziende, hanno perso flessibilità, sono spesso rigidi nelle loro opinioni e atteggiamenti, sono a volte persino portatori di preconcetti difficilmente difendibili, rappresentano valori sconfitti dall'attualità, testimoni noiosi e ripetitivi di un mondo agli albori della tecnologia, spesso minati da penose malattie, insufficienze, incapacità, che ci costringono, tutti, a misurarci con i nostri limiti e la nostra fragile condizione di uomini.

Ma quello che ancora più addolora è l'esclusione dell'anziano all'interno della famiglia stessa; il vecchio che vive al suo interno è poco adatto ai ritmi convulsi e alla ideologia consumistica, e spesso è d'intralcio alla filosofia del massimo divertimento da realizzare oggi, subito.
http://xoomer.alice.it/v.sossella/anziani.htm

giovedì 12 giugno 2008

La rivista "Rifugiati"

'RIFUGIATI' è la rivista ufficiale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). La pubblicazione trimestrale si propone di testimoniare la situazione vissuta da quanti, contro la loro volontà, sono costretti a lasciare le proprie case per cercare scampo da guerre internazionali o da conflitti interni. Un ampio spazio è dedicato anche alle molteplici attività di protezione e assistenza svolte dall’UNHCR in tutto il mondo in favore delle persone costrette alla fuga. Strumento di ricerca ed approfondimento nel campo dell’informazione sui rifugiati, la rivista fornisce inoltre una serie di notizie aggiornate sui vari paesi di asilo e di provenienza, con articoli e dossier fotografici.

Dal 2006, all'interno della pubblicazione, è presente un inserto di 4 pagine dedicato alla situazione di rifugiati e richiedenti asilo in Italia, realizzato in collaborazione con il Servizio Centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati e con il progetto IntegRARsi - Iniziativa Comunitaria EQUAL II fase.
http://www.unhcr.it/index.php?option=com_content&task=view&id=115&Itemid=138

martedì 10 giugno 2008

I sogni dei bambini palestinesi

Si svegliano urlando, con le lenzuola avvolte intorno alle gambe, o, terrorizzati, tremano sotto le coperte: le notti dei bimbi palestinesi sono sconvolte dalla repressione israeliana della rivolta iniziata 10 mesi fa.

I loro sonni non sono disturbati da streghe e mostri, ma da elicotteri israeliani, mitragliatrici, soldati in assetto da guerra e carrarmati.

Quelli non direttamente esposti ai combattimenti, hanno visto le immagini grafiche del sangue attraverso la televisione.

Un ragazzo palestinese sogna di restare decapitato da un missile israeliano mentre torna a casa da scuola, zainetto in spalla.

Una bambina 11enne sogna di far esplodere le bombe strette intorno al suo corpo di fronte al primo ministro israeliano Sharon ed al suo predecessore, Barak: I due muoiono dilaniati, mentre lei, miracolosamente, sopravvive.

Lo psicologo clinico palestinese dottor Shafiq Masalha ha collezionato circa 300 sogni, stabilendo che il 78% dei bambini palestinesi fanno sogni che hanno a che fare con la politica, mentre il 15% sogna di morire come martire.

Il dottor Masalha ha dato a 150 bambini di diversi campi profughi della Cisgiordania, libri da colorare e matite con cui documentare I loro sogni, attraverso il racconto scritto e attraverso il disegno.

Ha poi decifrato I quaderni pieni di figure, colorati di rosso e nero, rappresentanti la potenza israeliana contrapposta al coraggio palestinese.

Molti di essi si dipingono come eroi, coloro che riusciranno a mettere fine all'occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza.

Una bambina 11enne ha sognato di trovare un missile israeliano inesploso e di averlo usato per colpire un insediamento di coloni. "Molti israeliani sono morti nell'attacco. Vedendo il missile che io avevo trovato, la polizia imparo' a costruirne e, ogni notte, con essi, colpivano gli insediamenti, finche' I coloni scapparono", scrive la bimba.

Masalha ha detto che molti disegni terminavano con la frase: "Vorremmo essere come tutti gli altri bambini".

Lo psicologo sostiene che la miseria causata dall'assedio israeliano e la morte di quasi 570 palestinesi, dozzine di essi adolescenti, spaventano I bambini dei Territori occupati.

La televisione contribuisce a dilatare il trauma. Il dottor Iyyad al Sarraj del Centro di Salute mentale di Gaza, ha messo in guardia le autorita' circa la pericolosita', per la salute mentale dei bambini, della messa in onda di scene devastanti in ore non consone.

Il campo profughi di Aida, presso Betlemme, e' la casa di centinaia di bambini palestinesi le cui notti sono terrorizzate dalle scene di violenza vissute durante il giorno, nel quotidiano confronto con le forze d'occupazione.

La loro scuola e' nei pressi di un sito che conserva le spoglie della matriarca biblica Rachele, ed e' percio' presidiato da militari israeliani. I colpi sparati dai militari colpiscono spesso le pareti della scuola.

L'assistente sociale Iman Saleh aiuta I bambini traumatizzati a controllare le loro paure ed insegna loro tecniche di sopravvivenza quali stendersi sul pavimento allorche' la scuola e' presa di mira, o canzoni che li distraggano dal suono delle pallottole.

Molte mamme si rivolgono a lei preoccupate del fatto che I loro figli bagnano il letto, non si impegnano abbastanza nello studio, ingaggiano lotte libere a scuola o a casa. Le loro vite sono immerse nella rivolta.

"Prima dell'Intifada, la loro vita era quasi normale", sostiene Iman. "Ora vogliono solo giocare a palestinesi contro soldati". Alcuni bambini giocano a lanciare pietre, altri, armati con attrezzi piu' professionali, quali fionde simboleggianti armi automatiche, fingono di essere soldati.

Il dottor Sarraj ritiene che I bambini che assistono alle scene di violenza attraverso la TV non sono psicologicamente rovinati, ma turbati e fortemente spaventati.

Quelli le cui case sono state demolite dai bulldozers israeliani, che hanno visto gente morire o che hanno avuto lutti in famiglia sono realmente sottoposti a traumi pericolosi.

Essi esprimono il trauma attraverso un mutamento del comportamento che si evince da una forma di violenza contro se stessi. Molti sono preoccupati per il loro rendimento scolastico, non riescono a concentrarsi sullo studio e, come sintomo cardinale, soffrono di enuresi notturna.

Sarraj, che guida otto centri di igiene mentale a Gaza, ritiene che, se non si corre prontamente ai ripari, questa situazione influenzera' la societa' palestinese di domani.

I BAMBINI CRESCONO IN UNA PENTOLA A PRESSIONE

Il dottor Sarraj sostiene che la societa' palestinese e' come una pentola a pressione per I bambini, che crescono con una intensa coscienza politica, specie dall'inizio dell'Intifada.

Il blocco militare israeliano ha rafforzato I legami all'interno delle comunita'.

"Non abbiamo un'adolescenza innocente", dice Sarraj, aggiungendo che I bambini "sono molto politicizzati e molto influenzati dalla situazione a cui sono esposti".

Al campo profughi di Aida, la 13enne Shatha Yusef vuole diventare ingegnere agricolo per "impedire la confisca delle terre da parte di Israele". Suo fratello Sarey, di nove anni, vuole diventare un combattente degli Hezbollah. I sogni di entrambi sono disturbati. Shatha sogna spesso che un bimbo di Gaza ucciso all'inizio della rivolta le chiede aiuto.

Suo fratello sogna il corpo del suo amico Mota'z coperto di pallottole pendente da una trave. Saray ha visto effettivamente il corpo del suo compagno di giochi ucciso dagli israeliani alcuni mesi fa, in televisione, sepolto come un giovane eroe palestinese.

A volte esprime il desiderio di diventare martire come Mota'z, altre di diventare soldato "per proteggere le case palestinesi dalle demolizioni dei soldati israeliani. Mio padre mi ha detto che I martiri vanno in paradiso, cosi' io gli ho detto che, quando avro' 17 anni, andro' fuori a tirare pietre".

Sarraj afferma che I bambini palestinesi ritengono il martirio per la causa del loro popolo come "l'ideale piu' alto". "E' una forma di glorificazione ammessa dalla societa'. Finche' vi e' l'occupazione israeliana, finche' vi sono gli insediamenti vi saranno anche giovani pronti a morire e a diventare bombe umane".
http://www.arabcomint.com/i_sogni_dei_bambini_palestinesi.htm

I bambini a rischio a causa della crisi alimentare

Vertice Fao: Save the Children, i bambini quelli più a rischio a causa della crisi alimentare


La più grave crisi causata dall’aumento dei prezzi degli alimenti dalla metà degli anni settanta, non può che peggiorare la condizione dei 178 milioni di bambini con meno di cinque anni che crescono malnutriti. Per contro, solo 300 milioni di dollari sono stanziati ogni anno per la nutrizione di base e i paesi donatori, primi tra tutti quelli europei, sono privi di una reale strategia per la risoluzione della fame nel mondo.
In Tajikistan il prezzo di alcuni alimenti di base come cavoli, olio e pane è aumentato del 200%. In Egitto, dove il 40% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, il prezzo del pane è balzato da 36 a 55 centesimi di dollaro al chilogrammo, mentre quello del riso è passato da 2,90 a 5,23 dollari. In Uganda, si è avuto un incremento del 50% del costo della farina.

L’impatto della crisi alimentare nei paesi in via di sviluppo sta avendo le ripercussioni più gravi sulla vita dei bambini, in particolar modo di quelli che non hanno ancora compiuto 2 anni, per i quali si aggraverà la malnutrizione acuta o cronica. In Bangladesh, si prevede che la malnutrizione cronica raggiungerà il tasso del 43% mentre quella acuta quello del 12,9%, mentre ad Haiti si arriverà rispettivamente al 23,3% e 9,1% e infine in Etiopia al 46,5% e 10,5%. A lungo termine, inoltre, fame e malnutrizione avranno effetti negativi sullo sviluppo fisico e cognitivo dei bambini.

“Se una famiglia media americana spende il 9,9% del proprio reddito per il cibo, per una famiglia di Kouakourou in Mali, questa percentuale si impenna raggiungendo un range che va dal 50% all’80%. È chiaro pertanto che, in questi paesi, gli effetti dell’aumento dei prezzi sulla vita quotidiana dei membri della famiglia, soprattutto sui bambini, sono più impattanti” – sottolinea Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia.

Ogni anno perdono la vita 10 milioni di bambini per varie cause facilmente prevenibili che vanno dalla polmonite alla dissenteria, dalla malaria al morbillo: la malnutrizione è all’origine di un terzo di queste morti e una concausa per una percentuale che va dal 36 al 60%.
Oltre ad un aumento delle malattie dovuto ad un’alimentazione molto povera, gli effetti della crisi alimentare si faranno sentire anche sulla frequenza scolastica, a causa dell’impossibilità delle famiglie di pagare le rette o i libri o dell’incapacità dei bambini di concentrarsi a causa della fame.

Inoltre i bambini, per aumentare il reddito familiare, potrebbero essere costretti ad abbandonare la scuola e a lavorare o a chiedere l’elemosina, e nei casi più estremi trovare modi di guadagno alternativi prostituendosi o diventare vittime di tratta a scopo sessuale.

“Pertanto Save the Children raccomanda alcune azioni preventive – continua Valerio Neri -, volte a creare reti di sicurezza sociale, che provvedano a fornire cibo o denaro, e nello stesso tempo, invita ad aumentare gli sforzi per la distribuzione e l’adattamento alla realtà locale di interventi efficaci per la salute, l’educazione e la protezione. Inoltre, accanto al monitoraggio della situazione alimentare e alla risposta immediata ad ogni allarme malnutrizione, particolarmente importante appare aiutare i coltivatori locali a prepararsi per la prossima stagione e i piccoli proprietari ad aumentare la propria produttività affinché possano avere uno sbocco nei mercati a breve o a lungo termine”.
http://www.savethechildren.it/2003/comunicati.asp?id=520


Le mine antiuomo

Le mine sono antiuomo: la Campagna internazionale

Nel dicembre 1997 il premio Nobel per la pace e' stato conferito alla Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo ed alla sua portavoce Jodie Williams. Si e' trattato di un importante riconoscimento all'insieme di associazioni, gruppi e singoli individui che da alcuni anni cercano di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla questione delle mine antiuomo, sul peso economico, sociale ed umano da esse rappresentato, e sulla necessita' di uno sforzo collettivo per risolvere questo drammatico problema.

Uno dei risultati più importanti raggiunti dalla Campagna Internazionale è stata la pressione su un gran numero di paesi per indurli alla firma di un trattato internazionale sulla messa al bando delle mine antiuomo. Questi sforzi sono stati coronati da successo: alla fine del '97 nella conferenza ad Ottawa è stato raggiunto un accordo per il bando totale di queste armi. Il trattato ha finora ottenuto la firma di un elevato numero di paesi partecipanti e tra questi l'Italia (ma non ancora quella di paesi importanti quali gli USA e la Cina).

Questi risultati, per quanto significativi, non devono far perdere di vista le dimensioni del problema che la comunità internazionale ha ancora di fronte a sé. Infatti, anche se queste armi fossero definitivamente messe al bando in tutto il pianeta (e siamo ancora lontani dal raggiungimento di questo obiettivo), resterebbe ancora aperto il problema dell'eliminazione delle mine già disseminate in un gran numero di paesi …(continua).
http://www.volint.it/scuolevis/commercio%20armi/mine.htm

domenica 8 giugno 2008

Prostituzione: un mondo che attraversa il mondo

GRUPPO ABELE

La prostituzione viene spesso ridotta a questione di ordine pubblico, le prostitute trattate come “spazzatura” da rimuovere dalle strade. Disturbano i loro abiti succinti, le auto che si accodano, la loro presenza così visibile. Eppure quello che vediamo sulle nostre strade è una delle immagini più forti del divario tra i Paesi del Nord e del Sud del mondo. Le donne ridotte a merce sono spesso persone che fuggono dalla carestia o dalle guerre. Sfruttate da organizzazioni criminali, vedono infrangersi sui bordi di una strada il loro progetto di dare un futuro migliore a sé e alla propria famiglia.

Il Gruppo Abele ha iniziato la sua attività occupandosi, oltre che di minori, di prostituzione. A quel tempo (fine anni ’60) il Gruppo gestiva una comunità-appartamento per ragazze che volevano uscire dal “giro” della prostituzione forzata. Da allora, l’area della prostituzione è stata sempre presente negli interventi di accoglienza, ma anche nelle attività di tipo culturale e politico.

Molte le persone seguite in questi anni, nella discrezione più assoluta, e con interventi variegati. Donne e uomini, questi ultimi soprattutto negli anni della prima cassa integrazione a Torino (anni ’80): “Lo facciamo per portare soldi a casa, senza dover rubare”, dicevano imbarazzati quei signori di mezz’età che si rivolgevano a chiedere aiuto, perché non ce la facevano più a vivere in quel modo.

Accanto a loro, in questi anni, ragazzi e ragazze tossicodipendenti, che sulla strada vanno per procurarsi il denaro per la droga. Ma anche giovani “dalla faccia pulita”, che si prostituiscono per garantirsi un tenore di vita alto: persone con una gran confusione in testa, persuase di valere per ciò che hanno e non per ciò che sono. E ancora transessuali, per molti dei quali la strada è la sola possibilità di “lavoro”, di fronte a un mercato che li rifiuta (ma anche il solo modo per mettere da parte i soldi necessari per sottoporsi all’operazione del cambiamento di sesso e riconciliarsi così con la propria, difficile identità). Negli ultimi anni, la moltitudine di donne straniere, provenienti dai paesi poveri del mondo, che sulla strada hanno contratto l'Aids, fino al fenomeno più recente, la tratta di donne e minori, uno dei traffici criminali più pericolosi e redditizi.

Gli attori in gioco

Il fenomeno della prostituzione è notevolmente mutato negli ultimi vent’anni. Accanto alle donne italiane è cresciuta la presenza di donne straniere. Molte si prostituiscono per libera scelta, un numero decisamente superiore è invece legato a organizzazioni criminali che le sfruttano.

Le donne italiane

Le donne italiane che continuarono a prostituirsi in seguito alla chiusura delle case di tolleranza (legge Merlin del 1958), dopo essersi inizialmente riversate nelle strade, si ritirarono progressivamente nelle case. Il loro numero è, negli anni, diminuito, anche perché hanno avuto più opportunità lavorative e lavori migliori. La gran parte di quelle che oggi si prostituiscono si sono “emancipate”: non hanno più il protettore ed esercitano in casa, magari in due o tre, per tutelarsi. Per loro la prostituzione è una scelta. Hanno cura della propria salute e scelgono come, con chi e dove prostituirsi. Sulla strada sono rimaste quasi soltanto le/i tossicodipendenti, i travestiti e i transessuali: persone cioè che vivono una condizione di dipendenza da sostanze o di assenza di valide alternative di vita e di lavoro.

Non vanno dimenticate, tracciando il profilo delle donne italiane che si prostituiscono, coloro che, anni fa, non hanno saputo, o potuto, togliersi dal “giro” della prostituzione. “Lavorano” oggi nei centri storici delle città o vicino alle stazioni ferroviarie. Di età piuttosto avanzata, non possono più permettersi di scegliere i clienti con cui accompagnarsi e i rischi a cui si espongono aumentano. Lo dimostrano gli omicidi a loro carico, specie da parte di maniaci. Sono donne stanche, della prostituzione e della vita, che sempre più spesso chiedono aiuto per cambiare “lavoro”. Ma il mercato occupazionale anche a loro ha ben poco da offrire, data l’età e l’assenza di qualifiche adeguate. Gli stessi servizi socio-sanitari, il più delle volte, non sanno come aiutarle né dove collocarle.

Le donne straniere

Nell’ultimo decennio, il fenomeno della prostituzione ha visto la massiccia comparsa delle donne straniere, per lo più legate e sfruttate dalle organizzazioni criminali. I Paesi di provenienza sono molti (in alcune città italiane ne sono rappresentati oltre 35) ma in prevalenza si tratta di nigeriane, albanesi e donne provenienti dai paesi dell’Est (Romania, Ucraina, Moldavia ecc.). Ultimamente si registra un “ritorno” di donne provenienti dal Sud America e una presenza, ancora contenuta, di donne cinesi e marocchine, che perlopiù vengono fatte prostituire in locali chiusi e sotto la copertura di sale di massaggio.

Molte donne (in particolare quelle provenienti dalla Nigeria) sono consapevoli di che cosa verranno a fare in Europa. Molte vengono ingannate (con la promessa di lavorare in un bar, ecc.), altre ancora vengono rapite (specie nelle zone rurali). Nessuna, in ogni caso, immagina le condizioni di sopruso e sfruttamento cui saranno sottoposte. A gestire il traffico di esseri umani sono organizzazioni criminali dei Paesi di provenienza delle donne, in collaborazione con la criminalità e le mafie dei paesi ospitanti.

I clienti

Accanto alle donne che si prostituiscono, l’altro grande attore del mondo della prostituzione è il cliente: la domanda che determina o comunque sostiene l’offerta. Il cliente è, oggi più che mai, l’immagine dell’uomo travolto dalla ridefinizione dei ruoli, dalle conquiste sulla parità tra i sessi, solo teoricamente accettate da tutti. La donna che non vuole più solo dare, ma sa di poter chiedere, mette in discussione la sicurezza e l'identità maschile. La donna che si prostituisce, e la donna straniera in particolare, è invece rassicurante: in questo tipo di rapporto, gli uomini non devono dare, ma solo chiedere, e loro, le straniere, sono donne accondiscendenti.

Questi uomini-clienti cercano quindi modelli "vecchi" di donne, dotate soprattutto di quella remissività che non trovano altrove, e che li rassicura. Questo tipo di vissuto, problematico ma gestito nei limiti della legalità in un rapporto con una prostituta adulta, diviene illegale (e con ricadute devastanti sulla controparte) quando, per abbassare ulteriormente la possibilità di messa in discussione e aumentare la supremazia, anche fisica, il cliente cerca, o accetta di buon grado, una prostituta-bambina, una minorenne. Questa tendenza è in progressivo aumento, incrementata anche dalla assurda convinzione di alcuni clienti di preservarsi maggiormente dal rischio di contrarre l'Aids accompagnandosi con una minorenne…(continua)

http://www.gruppoabele.org/Index.aspx?idmenu=761

Prostituzione

Il manifesto - 15 Maggio 2002 Giovanna, Maria, le altre. In strada

Prostitute e prostituite Alcune proposte «sul campo»: lotta agli schiavisti, riduzione del danno, emersione dalla clandestinità. Per una discussione fuori da moralismi e ideologie
ANDREA MORNIROLI

Maria è moldava, è priva di permesso di soggiorno, fa la prostituta in Italia da circa 6 anni. Ha 30 anni. Noi (che lavoriamo a un progetto di intervento sulla prostituzione migrante) la conosciamo da due anni circa. Vive con il suo uomo, che la protegge e con cui divide, in modo concordato, il 50 % dei guadagni. Qualche mese fa ha richiesto di essere accolta in una nostra struttura perché voleva riflettere con calma sulla sua vita, sulle aspettative future, fuori dallo stress della strada e del lavoro. Dopo una serie di colloqui, e valutata la sua situazione le abbiamo proposto quelle che ci sembravano le uniche opportunità possibili (anche data l'attuale normativa in materia di soggiorno): a) aderire ad un programma di protezione sociale secondo quanto stabilito dall'art.18 della Legge 40, quindi l'abbandono della strada, e la ricerca, con il nostro supporto, di un'alternativa socio-lavorativa alternativa alla prostituzione (anche con il sostegno di una borsa lavoro per i primi 6 mesi);

b) ritornare in modo assistito al proprio paese di origine, al fine di ricongiungersi con la madre e il figlio (rimpatrio assistito garantito attraverso la rete che il nostro progetto ha con enti che si occupano di tale intervento);

c) tornare a fare la prostituta, con tutti i rischi del caso, garantendole comunque, come progetto, di continuare con lei le attività informative, di prevenzione e tutela della salute, di costruzione di pari opportunità di accesso al sistema dei servizi .
Dopo averci pensato, Maria ha chiesto di parlarmi in qualità di coordinatore del progetto, e più o meno le sue parole sono state le seguenti: «Guarda Andrea, io ho iniziato a fare la prostituta perché ogni volta che mio figlio mi chiedeva qualcosa che non fosse il pane, io dovevo dirgli che non potevo. Da quando sono in strada, posso comprargli i vestiti, mandarlo a scuola e forse quest'anno gli compro anche il motorino. In più riesco a mantenere anche mia madre che è rimasta sola e fa tanto per me. Le cose che tu mi offri mi farebbero tornare indietro, per cui ti ringrazio ma io torno in strada». Oggi Maria continua a lavorare. Tutte le settimane la incontriamo, ci chiede piccoli interventi, le offriamo gli strumenti di riduzione del danno, chiacchera con le mediatrici, ci aiuto con le nuove ragazze, mandandole sul camper, distribuendo i volantini del servizio, rassicurandole sul fatto che possono avere fiducia nel progetto.

Giovanna è albanese, ha 20 anni, oggi lavora come segretaria in un'altra città. Fino a 6 mesi fa faceva la prostituta (da tre anni), costretta e minacciata a farlo da un piccolo clan di albanesi. Dopo numerosi contatti con l'unità mobile e soprattutto grazie al lavoro della mediatrice culturale ha trovato la forza di scappare, di denunciare i suoi sfruttatori (oggi in galera) e di entrare in un nostro programma di protezione e di supporto all'inclusione socio-lavorativa che appunto si è concluso in modo positivo con l'ottenimento di un lavoro con contratto a tempo indeterminato.

Due casi singoli e diversi tra loro, ma che rispecchiano in modo fedele la situazione della maggioranza delle donne prostitute/prostituite con cui siamo venuti in contatto in circa due anni di attività. Molte donne sottoposte al traffico, schiavizzate, continuamente violentate fisicamente e psicologicamente. Molte altre che pur non avendo sfruttatori hanno individuato nella prostituzione l'unico possibile progetto migratorio per uscire dalla fame e dalla miseria, per mantenere le loro famiglie nei paesi di origine.

Situazioni assai diverse ma con le quali cerchiamo di avere lo stesso approccio. Cioè quello di riconoscere, in primo luogo, le donne come persone, come soggetti di diritto, indipendentemente da condizioni, status giuridico, costrizione o meno nel lavoro di prostituta. Cercando sempre di proporci in modo non moralistico, non salvifico, ma offrendo le possibili opportunità, riconoscendo alle donne la capacità di scelta e di assumersi delle responsabilità, di partecipare attivamente e in modo consapevole ai servizi e agli interventi attivati. Ed è a partire da tale approccio pragmatico, come coordinatore di un progetto che quotidianamente ha a che fare con le donne prostitute/prostituite, con i loro bisogni e le loro aspettative che vorrei intervenire nel dibattito sulla prostituzione che in questi giorni si è aperto in seguito alle dichiarazioni di Bossi (l'onorevole non me lo sono dimenticato è che mi sembra del tutto inadatto).

In primo luogo, mi sento offeso e indignato per l'ennesimo dibattito sulla prostituzione completamente superficiale, demagogico e strumentale, e soprattutto, eticamente inaccettabile, perché non esita, in nome delle appartenenze e della creazione del consenso elettorale, a calpestare i diritti e la dignità di migliaia di donne già colpite quotidianamente dal pregiudizio, dalla precarietà di vita e di diritti, dal disprezzo di molti. Anche se poi una parte di quei molti «ne fa uso» per malessere, riaffermazione di virilità e potere, per soddisfare voglie che la «normalità» e la morale considerano tabù.

E allora, forse, bisognerebbe tutti quanti provare a programmare e implementare interventi che sappiano intrecciare e adeguare alle diverse situazioni tre diverse esigenze:

1) Lotta al traffico e ai nuovi schiavisti;

2) Ridurre i danni e tutelare i diritti delle donne prostitute/prostituite;

3) Favorire l'emersione delle donne dalla condizione di irregolarità in materia di normativa sul soggiorno.

Sul primo punto, oltre a incrementare le forme di contrasto e di repressione, anche prevedendo un inasprimento delle pene, sicuramente andrebbero potenziate le risorse e gli strumenti per il potenziamento e la diffusione territoriale dei progetti e delle procedure collegati all'art. 18 della Legge 40, che come l'esperienza ha dimostrato si sono rilevati un mezzo importante per supportare le donne nei percorsi di uscita, per tutelarle dal punto di vista della salute e dei diritti e contemporaneamente per mandare in galera decine di sfruttatori. Occorre, invece, abbandonare la logica delle retate e delle espulsioni perché, lungi dal risolvere il problema, provoca due tipi di danno grave: da un lato rendono due volte vittime le donne, dall'altro spingono i trafficanti a nascondere la prostituzione in luoghi chiusi, dove difficilmente i progetti, gli operatori e le mediatrici possono arrivare.

Altro tema centrale è la «riduzione del danno», le cui strategie andrebbero stimolate e implementate, non solo perché importanti per la salute delle donne (ma anche dell'intera comunità visto che se le donne in strada sono quasi tutte migranti, i clienti sono quasi tutti italiani e, spesso, mariti e fidanzati), ma anche perché rappresentano un insostituibile strumento di primo contatto e costruzione di relazioni fiduciari tra operatori e donne in strada.

Ma non si tratta solo di prevenzione e tutela della salute. Ridurre i danni significa anche attrezzare le aree urbane di prostituzione, per evitare che le donne subiscano violenze e soprusi di ogni genere. In tal senso sono auspicabili interventi di illuminazione, di arredo con panchine e cassonetti, di controllo di polizia per intervenire non sulle donne (che in quanto prostitute, ricordo, non commettono nessun reato per la legge italiana), ma su quei clienti o su quei branchi che spesso passano nelle strade dove lavorano le ragazze per insultare, lanciare oggetti, picchiare. Tali interventi, per altro eliminerebbero gran parte di quella conflittualità sociale che spesso non è determinata dalla presenza in se delle donne, ma dalla sporcizia e dalla «tensione relazionale» che si viene a creare nelle zone di esercizio della prostituzione.

In merito all'emersione del fenomeno, in prima istanza, andrebbero eliminati dalla attuale normativa i reati di favoreggiamento e adescamento, che non solo finiscono per colpire solo le donne ma non permettono il realizzarsi di forme di emancipazione, quali ad esempio la possibilità di affittare un appartamento insieme per l'attività di prostituzione che, nei fatti, consentirebbe maggior sicurezza, maggiore tutela della salute, maggiore possibilità di scelta dei clienti rispetto a quella realizzabile in strada.

Ancora, credo sarebbe utile ragionare su proposte di legge come quella recentemente approvata in Germania, che ha riconosciuto la prostituzione come attività di lavoro autonomo, tassabile, ma anche condizione sufficiente per l'ottenimento di un regolare permesso di soggiorno. Va detto che per molte donne, così come le stesse ci dicono in strada, il poter ottenere un permesso sarebbe il primo necessario passaggio per cercare una nuova situazione di vita e di lavoro, alternativa alla prostituzione.

Quelli che ho cercato di portare, a partire dall'esperienza di campo, sono alcuni spunti di riflessione, del tutto aperti al confronto e alla critica. Mi piacerebbe moltissimo che il manifesto su questo tema aprisse un dibattito vero, fuori da ogni moralismo e impianto ideologico, da ogni logica salvifica e strumentale che, almeno così mi pare, è proprio l'unica cosa di cui le donne prostitute e prostituite non sentono la necessità.

Andrea Morniroli è coordinatore di un progetto di intervento sulla prostituzione migrante

http://www.cestim.it/rassegna%20stampa/02/05/15/prostituzione.htm




sabato 7 giugno 2008

Una banca per bambini di strada

India; Creata a Nuova Delhi una banca per bambini di strada
Nata da un'ong e gestita da ragazzini, insegna a gestire denaro

Roma, 7 giu. (Apcom) - I bambini di strada di Nuova Delhi possono depositare in una banca gestita quasi interamente da ragazzini i soldi guadagnati rovistando tra rifiuti riciclabili, vendendo riviste e frutta agli incroci stradali e servendo ai tavoli dei banchetti di nozze. Istituita nel 2001 dall'ong Butterflies, la Children Development Bank vanta oggi circa 2.000 clienti nelle sue 12 "filiali" sparse per la capitale indiana, situate in luoghi dove vengono anche tenuti corsi di gestione finanziaria e altre attività per i minori senzateto.

L'India è il Paese con il più alto numero di bambini di strada, stimati in circa 10 milioni. Nella sola Delhi, si ritiene siano oltre 100.000. Alcuni vivono con le loro famiglie, migliaia di loro crescono invece attorno alle principali stazioni ferroviarie e nelle aree più trafficate della città, dove possono vendere le loro merci. Molti vengono picchiati dalla polizia o subiscono abusi sessuali da parte di adulti cacciatori. Parecchi sniffano colla, alcuni mendicano, altri rubano. A molti di loro, l'ong Butterflies garantisce da anni un tetto e dal 2001 cerca di insegnare loro a gestire i soldi, nella prospettiva di aiutarli a uscire dalla povertà.

"Non è importante quanto riescono a risparmiare - dice al Los Angeles Times il direttore del progetto, Sebastian Mathew - quanto l'abitudine a risparmiare e a non spendere i loro soldi in colla da sniffare, in fumo o in film che vedono a ripetizione". La banca è gestita da ragazzini di età compresa tra i 9 e i 18 anni, anche se è sempre garantita la presenza di adulti, incaricati di proteggere i bambini e di raccogliere a fine giornata il denaro depositato, che viene poi trasferito, a intervalli regolari, in una banca privata.

Sanjay Kumar, 13 anni, ha aperto il suo conto due anni e mezzo fa e oggi ha circa 90 dollari, una cifra invidiabile per gli standard di vita dei bambini. "Voglio fare qualcosa quando sarà grande - dice la ragazzina, che ha risparmiato sui guadagni ottenuti servendo ai tavoli nei banchetti - voglio aprire un negozio di tè". Una volta compiuti i 15 anni, Sanjay potrà chiedere un prestito. La banca consente infatti ai clienti "più anziani" di prendere in prestito denaro per avviare attività o proseguire gli studi.

http://notizie.alice.it/topten_apcom/topten,2.html

venerdì 6 giugno 2008

Io, clandestino a Lampedusa

riferimento:espressonline 08/11/2005

di Fabrizio Gatti

Un nome inventato e un tuffo in mare. Non serve altro per essere rinchiusi nel centro per immigrati di Lampedusa. Basta fingersi clandestino e in poco tempo ci si ritrova nella gabbia dove ogni anno migliaia di persone finiscono il loro viaggio e dove nessun osservatore o giornalista può entrare. La via più veloce per infiltrarsi nella Cayenna dell'Unione europea prevede un salto dagli scogli e qualche ora in acqua. Se non si vuole partire dalla Libia e rischiare di affondare con le barche sovraccariche, non esistono alternative. Così ho scelto un nome straniero e uno stratagemma preso in prestito da Papillon, il mitico film del 1973: per fuggire dalla Cayenna, quella vera, Steve McQueen si butta dalle rocce e si affida all'Oceano aggrappato a una zattera di fortuna. Solo che qui lo scopo non è scappare ma farsi prendere. Ed è ciò che mi è successo: ripescato da un automobilista, catturato dai carabinieri sul lettino del pronto soccorso e rilasciato la settimana dopo, la sera di venerdì 30 settembre. Libero, con la possibilità di andare a lavorare in qualunque città d'Europa come clandestino, nonostante i precedenti penali e una condanna nel 2004. Comincia e finisce così il diario di otto giorni da prigioniero nell'inferno di Lampedusa. Il prezzo da pagare per assistere in prima fila a umiliazioni, abusi, violenze e a tutto quanto l'Italia ha sempre nascosto alle ispezioni del Parlamento europeo e delle Nazioni Unite. Ma è anche l'opportunità per vivere l'immane solitudine di uomini, donne e bambini che, nella fatica di migliorare la propria vita, hanno avuto contro il deserto, i trafficanti, le tempeste e adesso che sono sbarcati hanno contro la legge che dovrebbero rispettare.

Venerdì 23 settembre

Il Mediterraneo stasera ha il respiro lento. Sotto il cielo senza luna, l'acqua non si vede. Si sente soltanto il suono, due o tre metri laggiù ai piedi della scogliera. Prima del salto, bisogna sincronizzarsi con il ritmo del mare. Entrare in acqua quando l'onda è più alta, sfruttare la risacca e allontanarsi subito dalle rocce. Uno. Due. Al tre il freddo già avvolge il corpo: da questo momento sono Bilal Ibrahim el Habib, nato il 9 settembre 1970 nel villaggio immaginario di Assalah, distretto di Aqrah, Kurdistan iracheno. Sugli scogli non sono rimaste tracce. Scarpe e calze sono state affondate con quattro sassi. E anche il rotweiler randagio che aveva deciso di seguirmi e passare la sera in compagnia, adesso se ne sta andando un po' perplesso. Bilal non ha molto con sé. Ha addosso pantaloni di tela neri, boxer, maglietta di cotone, una felpa blu, un pile pesante e un giubbotto di salvataggio con una scritta in arabo. Sul petto Bilal stringe una borsa sportiva. Dentro ci sono tre scatolette di sardine 'Product of Morocco', tre panini ormai poltiglia, una bottiglia d'acqua e un paio di vecchie ciabatte di plastica. Ma quella borsa, gonfia d'aria, aiuta soprattutto a galleggiare. È la serata ideale per buttarsi in mare senza essere visti. Nel cielo rimbalzano le luci e i suoni di 'O' Scià', il festival di Claudio Baglioni. Quasi tutti i turisti, gli abitanti e le pattuglie di polizia e carabinieri sono allo spettacolo. E Bilal può nuotare indisturbato fino a un promontorio su cui brillano le finestre di una villa. C'è un andirivieni di ragazzi, auto e scooter. E prima che qualcuno si accorga dell'uomo in mare, passano almeno quattro ore e mezzo.

La gente di Lampedusa e le infermiere del pronto soccorso hanno regalato tutta la loro generosità. Ma adesso Bilal è su una macchina dei carabinieri. I fari illuminano una strada senza uscita accanto all'aeroporto. Poi un cancello sulla destra, decorato dal filo spinato. Apre un carabiniere in tuta antisommossa, anfibi e pistola nella fondina. Saranno le due e mezzo di notte. Anche se per la legge resta un libero cittadino, da qui Bilal non può più andarsene. "Dal pronto soccorso ci hanno consegnato questo", dice al collega il militare sceso dall'auto. Bilal viene accompagnato a testa bassa fino a un piccolo cortile dove aspettano altri carabinieri e un ragazzo con la divisa della Misericordia, l'associazione che ha in appalto il centro di Lampedusa. Il ragazzo offre un bicchiere d'acqua e quattro confezioni di cornetti. Poi toglie da un sacchetto una maglietta di cotone e una tuta da ginnastica: "Mettiti queste che stai più caldo", dice. "Come ti chiami? Da dove vieni?", vuol sapere un carabiniere. "I don't understand", sussurra Bilal, non capisco. La domanda viene rifatta in inglese maccheronico. "Kurdistan? Ma se questo è più bianco di me, come fa a essere curdo?", chiede un carabiniere molto abbronzato. Bilal tiene gli occhi bassi sulle sue ciabatte logore e ascolta le voci. "Un curdo che parla inglese. Sarà. Non è che questo è un giornalista della Cnn infiltrato qui dentro?". "Sì, o magari è un giornalista italiano?". "Ma va', gli italiani non fanno queste cose", risponde la prima voce. Pericolo scampato. "Bilal, you must tell ze verity", urla un carabiniere, devi dire ze verity. "Ze verity, understand? Se no bam bam", e mima gli schiaffi. Verity? In inglese verità si dice truth. Sarà un errore o un tranello? "Bilal vieni", chiama il ragazzo della Misericordia. Trascina un materassino di gommapiuma preso da una pila di materassi. Lo sistema in corridoio, tra una fila di cessi puliti e la porta di un altro gabinetto molto sporco. Poi lo ricopre con un lenzuolo di carta. "Stanotte lo facciamo dormire qui", dice il ragazzo ai carabinieri. Un altro immigrato sta russando, avvolto come una mummia in una coperta. E da una porta semichiusa si intravvedono le sagome di decine di donne stese sul pavimento e un bambino. Quando Bilal torna dal gabinetto, dove è sempre stato seguito da un carabiniere, trova il suo posto occupato. Più di 200 mosche hanno pensato che quel lenzuolo bianco e fresco di cartiera fosse per loro. Ma sono mosche educate. Si alzano quando Bilal arriva e si riappoggiano su di lui soltanto dopo che si è sdraiato. Il tentativo di scacciarle è una battaglia persa. Dal pavimento sale un fortissimo odore di urina. Dal soffitto la luce non si spegne mai. I carabinieri ridono e parlano a voce alta tutta la notte. È difficile prendere sonno. E poi c'è il problema del colore della pelle. Occorre inventarsi una spiegazione credibile prima di domani mattina. Forse questa può andare: Bilal è così pallido perché il papà è curdo, ma la mamma è bosniaca.

Sabato 24 settembre

L'alba si annuncia con un fragore assordante. Nel dormiveglia sembra il rumore di un aspirapolvere. No, forse è una lucidatrice. Ma no, è troppo forte. La puzza risolve il mistero. Sì, queste sono esalazioni di jp, il carburante degli aerei. Ecco cos'è: l'aeroporto accanto. Quando gli Airbus fanno manovra, sparano il getto dei motori dritto dentro le finestre dove dormono gli immigrati. È ancora buio, ma ormai sono tutti svegli. Dalla stanza delle donne escono ragazze eritree o etiopi. Altre appaiono da una seconda porta. C'è anche una donna con il pancione della gravidanza. Il conto è subito fatto: tra teenager e adulte sono quasi una cinquantina. In più Bilal e l'altro uomo che dorme in corridoio. Per tutti c'è un solo water, quattro docce e qualche lavandino. I carabinieri non vogliono che si usino le loro turche, le uniche che profumano di candeggina. Per evitare domande e guai, Bilal finge di dormire. Ma osserva e ascolta. C'è un viavai di carabinieri e qualche poliziotto intorno a lui. Si chiedono se sia davvero curdo. Le ragazze africane passano il tempo ad annodarsi treccine. Una di loro, che non avrà più di vent'anni, ha tutte le unghie smaltate a metà. La parte sopra è abbellita da un leggero velo perlaceo, la parte sotto è cresciuta senza cura. Forse dove finisce lo smalto è cominciato il suo viaggio. Fuori, nel piccolo cortile, pendono scarpe, pantaloni e maglie delle ultime arrivate. Ieri sera sono sbarcati 161 immigrati, poi altri 37, e poi Bilal. C'è un libro del Corano messo ad asciugare al sole. "Bilal", urla forte una voce. "Tu", dice un poliziotto e con la mano fa capire che bisogna seguirlo.

L'ufficio identificazioni della polizia è una grande stanza con quattro scrivanie. Bilal lo fanno sedere in fondo a destra. Di fronte a lui due poliziotti in borghese, un computer e un ragazzo con il volto berbero. È l'interprete: "Parli arabo?", chiede in arabo. "Sì". "Da dove vieni?". "Kurdistan. Ma vorrei continuare in inglese, l'arabo non è la mia lingua, gli arabi hanno occupato la mia terra", risponde Bilal. Scegliere la lingua è il primo nell'elenco dei 'Diritti degli immigrati' scritto su carta della Prefettura di Agrigento e appeso in corridoio. All'interrogatorio si aggiunge una ragazza che chiamano dottoressa e indossa una maglietta mimetica stile esercito americano. Vuole sapere tutto. Bilal racconta di voler andare in Germania. E di essere stato chiuso in un container in Turchia, caricato su un mercantile e messo su una lancia a motore a qualche miglio dalla costa italiana. Poi la lancia si è spaccata, è affondata e Bilal si è salvato a nuoto. Vogliono sapere della scritta in arabo sul giubbotto salvagente. "C'è scritto: La felicità 3. Forse è il nome di una nave", spiega l'interprete di arabo. "Tu sai cosa c'è scritto?", chiede la dottoressa, sempre in inglese. "Sì, as Soror, la felicità: tutti noi siamo venuti in Europa a cercarla". Bilal deve ripetere tre volte la storia del suo viaggio. Cercano di metterlo in contraddizione. Fanno domande tranello: "Se sei curdo, parli urdu". "No, l'urdu è una lingua del Pakistan". Poi si arrabbiano: "Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi", promette la dottoressa. "Ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?", le chiede un poliziotto robusto che si è appena aggiunto al gruppo. Ma forse è solo un modo per capire se Bilal parla italiano e per spaventarlo. L'interrogatorio ritorna subito a un volume più umano. La dottoressa prende il telefono e protesta con la stazione dei carabinieri perché chi ha prelevato Bilal al pronto soccorso non ha scritto il verbale e nessuno sa dove sia stato pescato e chi lo abbia portato nel centro. "Ecco, devi dire al maresciallo che è un coglione", conclude la dottoressa. Dopo l'interrogatorio, bisogna lasciare le impronte digitali. Le dita e il palmo delle mani vanno premuti sul vetro rosso di uno scanner e si è automaticamente schedati. Fuori, 21 teenager aspettano il loro turno. Avranno tra i 15 e i 20 anni, visti insieme sembrano una classe di liceali in gita. Sono tutti di Kerouane, in Tunisia, tutti vicini di casa, tutti partiti con la stessa barca. Bilal non ha il tempo di sedersi accanto a loro. Un poliziotto gli consegna un biglietto con il numero di matricola 001 e lo affida ai carabinieri. Lo portano davanti a un grande cancello verde incorniciato da rotoli di filo spinato. Un altro carabiniere apre il lucchetto, poi sblocca il catenaccio. Subito dopo il cancello si richiude. ……( Continua)

http://www.emigrati.it/Immigrazione/Immigrazione.asp

mercoledì 4 giugno 2008

Istat e povertà

Istat, povertà 'stabile' al 13,1%
Ma al Sud va sempre peggio
Migliora invece la situazione degli anziani, sia soli che in coppia
Al Nord in difficoltà famiglie giovani e lavoratori dipendenti


ROMA - Nessun cambiamento sul fronte della povertà: l'annuale rilevazione dell'Istat ha riscontrato 2.585.000 famiglie in condizione di indigenza, pari all'11,1%. Nel 2004 erano l'11,7%, una differenza che viene giudicata "statisticamente irrilevante". Le persone che vivono in condizione di povertà sono complessivamente 7.577.000, pari al 13,1% della popolazione. Si avverte solo qualche miglioramente per quel che riguarda gli anziani, soli o in coppia, ma al Sud l'Istat ha invece riscontrato un ulteriore peggioramento: l'incidenza della povertà nelle famiglie con un elevato numero di componenti è passata infatti dal 36,4% del 2004 al 42,9%.

Il fatto che la situazione in Italia rimanga nel complesso inalterata tutto sommato da anni, ha ricordato l'Istat, è stato giudicato come un dato "inquietante" dal presidente della commissione parlamentare sulla povertà Giancarlo Rovati.

Gli anziani vivono un po' meglio. Il miglioramento della situazione degli anziani è generalizzato, e si riscontra in misura maggiore al Centro, dove le famiglie con almeno una persona ultrasessantacinquenne in condizione di povertà sono l'8% del totale, percentuale inferiore all'11,2% del 2004. Migliora anche la situazione delle famiglie con a capo una donna anziana: l'incidenza della povertà passa dall'8,8% al 6,5%.

Al Sud i più poveri del Paese. Mentre al Sud va sempre male, anzi peggio. "Al Sud non solo ci sono più poveri, ma vivono anche peggio rispetto alle altre aree del Paese", spiega la ricercatrice dell'Istat Nicoletta Pannuzi. Al Sud, insomma, i poveri oltre ad essere più numerosi sono anche più poveri: infatti l'intensità della povertà raggiunge il 22,7%, rispetto al 17,5% e al 18,9% nel Nord e nel Centro. Al Mezzogiorno risiedono i tre quarti delle famiglie che l'Istat definisce come "sicuramente povere", corrispondenti al 5,1% del totale, con livelli di spesa mensile inferiori di oltre il 20% alla linea standard.

http://www.repubblica.it/2006/10/sezioni/economia/istat-poverta/istat-poverta/istat-poverta.html

martedì 3 giugno 2008

Quello che i medici non sanno



“Quello che i medici non sanno. La vita parallela alla malattia” è un libro che raccoglie le vicende di dieci pazienti che hanno fatto l’esperienza del racconto autobiografico.
Il volume si apre con un’introduzione sui temi cruciali della fiducia verso i medici, del rapporto con la malattia e le terapia e dell’impatto della patologia sulla vita quotidiana. Seguono le storie, molto diverse le une dalle altre, ma tutte testimonianze autentiche, semplici e non artefatte da retorica.
Storie raccontate direttamente dai pazienti. Una malattia grave sconvolge la vita di una persona. Non è solo il corpo ad essere toccato dalla patologia e dai conseguenti tentativi di cura. L’intera esistenza quotidiana è messa in crisi.
Qual è il senso di questa vita ferita? Quale futuro? Se la medicina cura la malattia, il corpo organico, il paziente è solo nel fare i conti con il caos che ne deriva. Solo e, nella maggior parte dei casi, in silenzio. Insomma, del “corpo biografico” nessuno si cura. Perché di malattia, e di quello che significa per il paziente, difficilmente si può parlare. Con i medici? Troppo impegnati nella lotta alla patologia. Con i propri cari? Troppo preoccupati di non ferire inutilmente il protagonista della malattia.
Eppure, come dice una paziente, “potersi raccontare è già un grande aiuto”. Questo è lo spirito del libro e di questo sito web: ascoltare, presentare e far leggere storie di malattia. Perché è un modo, profondo e delicato, per prendersi cura. Perché, con il loro dolore, la sofferenza, la speranza e la commozione, tutti questi racconti sono esemplari storie di vita.

http://www.ucare.it/la-vita-parallela-alla-malattia.html

Protocollo dei diritti del malato

TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO


PROTOCOLLO DEI DIRITTI DEL MALATO

1. DIRITTO AL TEMPO
Ogni cittadino ha diritto a vedere rispettato il suo tempo al pari di quello della burocrazia e degli operatori sanitari.

2. DIRITTO ALL'INFORMAZIONE E ALLA DOCUMENTAZIONE SANITARIA
Ogni cittadino ha diritto a ricevere tutte le informazioni e la documentazione sanitaria di cui necessita nonché ad entrare in possesso degli atti necessari a certificare in modo completo la sua condizione di salute.

3. DIRITTO ALLA SICUREZZA
Chiunque si trovi in una situazione di rischio per la sua salute ha diritto ad ottenere tutte le prestazioni necessarie alla sua condizione ed ha altresì diritto a non subire ulteriori danni causati dal cattivo funzionamento delle strutture e dei servizi.

4. DIRITTO ALLA PROTEZIONE
Il servizio sanitario ha il dovere di proteggere in maniera particolare ogni essere umano che, a causa del suo stato di salute, si trova in una condizione momentanea o permanente di debolezza, non facendogli mancare per nessun motivo e in alcun momento l'assistenza di cui ha bisogno.

5. DIRITTO ALLA CERTEZZA
Ogni cittadino ha diritto ad avere dal servizio sanitario la certezza del trattamento nel tempo e nello spazio a prescindere dal soggetto erogatore e a non essere vittima degli effetti di conflitti professionali e organizzativi, di cambiamenti repentini delle norme, della discrezionalità nella interpretazione delle leggi e delle circolari, di differenze di trattamento a seconda della collocazione geografica.

6. DIRITTO ALLA FIDUCIA
Ogni cittadino ha diritto a vedersi trattato come un soggetto degno di fiducia e non come un possibile evasore o un presunto bugiardo.

7. DIRITTO ALLA QUALITA'
Ogni cittadino ha diritto di trovare nei servizi sanitari operatori e strutture orientati verso un unico obiettivo: farlo guarire e migliorare comunque il suo stato di salute.

8. DIRITTO ALLA DIFFERENZA
Ogni cittadino ha diritto a vedere riconosciuta la sua specificità derivante dall'età, dal sesso, dalla nazionalità, dalla condizione di salute, dalla cultura e dalla religione e a ricevere di conseguenza trattamenti differenziati a seconda delle diverse esigenze.

9. DIRITTO ALLA NORMALITA'
Ogni cittadino ha diritto a curarsi senza alterare, oltre il necessario, le sue abitudini di vita.

10. DIRITTO ALLA FAMIGLIA
Ogni famiglia che si trova ad assistere un suo componente ha diritto di ricevere dal servizio sanitario il sostegno materiale necessario.

11. DIRITTO ALLA DECISIONE
Il cittadino ha diritto, sulla base delle informazioni in suo possesso e fatte salve le prerogative dei medici, a mantenere una propria sfera di decisionalità e di responsabilità in merito alla propria salute e alla propria vita.

12. DIRITTO AL VOLONTARIATO, ALL'ASSISTENZA DA PARTE DEI SOGGETTI NON PROFIT E ALLA PARTECIPAZIONE
Ogni cittadino ha diritto ad un servizio sanitario, sia esso erogato da soggetti pubblici che da soggetti privati, nel quale sia favorita la presenza del volontariato e delle attività non profit e sia garantita la partecipazione degli utenti.

13. DIRITTO AL FUTURO
Ogni cittadino, anche se condannato dalla sua malattia, ha diritto a trascorrere l'ultimo periodo della vita conservando la sua dignità, soffrendo il meno possibile e ricevendo attenzione e assistenza.

14. DIRITTO ALLA RIPARAZIONE DEI TORTI
Ogni cittadino ha diritto, di fronte ad una violazione subita, alla riparazione del torto subito in tempi brevi e in misura congrua.


http://www.disabili.com/content.asp?Subc=6301&L=1&idMen=500

Crisi alimentare mondiale uno tsunami silenzioso


La crisi sarà di lungo periodo, sostiene l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO). I prezzi dei cereali, che sono aumentati del 37% nel 2007, continueranno a salire anche nel 2008, provocando "la moltiplicazione delle sommosse della fame" che hanno gia toccato 37 nazioni e causato numerose vittime. L’Egitto, il Camerun, la Costa d’Avorio, la Mauritania, l’Etiopia, Madagascar, le Filippine, l’Indonesia...
mercoledì 21 maggio 2008, di Thierry Abdon AVI - 243 letture

Da Haiti alla Tailandia, dal Senegal all’India, dall’Egitto all’Indonesia, le tensioni legate all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari lasciano intravedere una crisi di ampiezza planetaria. Umanità in preda alla scarsità alimentare (Aprile 2008): manifestazioni in Bangladesh, dove una porzione di riso costa la metà del reddito quotidiano; il primo ministro di Haiti è stato silurato, dopo che un soldato dell’ONU è morto durante una sollevazione popolare; tensioni in Burkina-Faso alla vigilia di uno sciopero generale contro l’aumento dei prezzi... La crisi sarà di lungo periodo, sostiene l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO). I prezzi dei cereali, che sono aumentati del 37% nel 2007, continueranno a salire anche nel 2008, provocando "la moltiplicazione delle sommosse della fame" che hanno gia toccato 37 nazioni e causato numerose vittime. L’Egitto, il Camerun, la Costa d’Avorio, la Mauritania, l’Etiopia, Madagascar, le Filippine, l’Indonesia, per citarne alcune, hanno già conosciuto “scompigli della fame” provocati da gente incapace di comperarsi i prodotti alimentari di base. È il nuovo volto della fame: milioni di persone che, sei mesi fa, non figuravano nella categoria di quelle bisognose oggi vi si ritrovano.

Uno "tsunami silenzioso" che minaccia di affondare nella carestia altre decine di milioni di persone. Il Programma Alimentare Mondiale (PAM) ha ancora una volta suonato il campanello d’allarme (martedì 22 aprile 2008) sostenendo che l’aumento del prezzo dei prodotti alimentari costituisce la più grande sfida dei suoi 45 anni di storia. Secondo Josette Sheeran, direttrice del Programma, l’urgenza è tale che la Comunità Internazionale deve dare una risposta della stessa dimensione di quella apportata dopo lo Tsunami del 2004 avvenuto nell’Oceano Indiano e che aveva fatto circa 220.000 morti in vari paesi; più di 12 miliardi di dollari di aiuti privati e pubblici furono raccolti. La Sheeran chiede a viva voce una "azione di alto livello e su un’ampia scala da parte della Comunità Internazionale, centrata su soluzioni a breve ed a lungo termine.

Le stime che il PAM sottolinea, confermano le conclusioni della Banca Mondiale, la quale considera che il raddoppio dei prezzi alimentari avvenuto durante questi ultimi tre anni rischia di peggiorare la povertà di almeno 100 milioni di Africani dei paesi più poveri. Per contrastare questa impennata dei prezzi, anche la Banca Mondiale, in occasione dell’assemblea di primavera del 12 e 13 aprile a Washington, ha invitato tutti i Paesi più ricchi ad un impegno massiccio, reale e di concertazione su scala internazionale.

Inoltre, secondo alcuni economisti, questo aumento di prezzi rischia di farsi sentire anche in Canada a breve termine. Questi esperti dicono che il Paese potrebbe, presto, subire un’inflazione alimentare ed energetica simile a quella che ha conosciuto negli anni Settanta.

La moda dei biocarburanti: il barile di petrolio a un picco di 122 dollari favorisce la corsa verso l’oro verde. L’Unione europea vuole arrivare al 10% di biocarburanti del consumo totale di benzina e di gasolio da qui al 2020; George Bush, invece, sogna di vedere il 15% delle automobili girare con i biocarburanti da qui al 2017. Anche Paesi con deficit alimentare, come l’Indonesia o il Senegal, si mettono ad emulare, sacrificando terre arabili. “Un eccessivo entusiasmo che ha aumentato la domanda di prodotti alimentari", dice Bob Zoellick, Presidente della Banca Mondiale. "Tra il 20 e il 50% della produzione mondiale di granoturco o colza sono stati così deviati dal loro utilizzo iniziale", fa notare il FMI, ed il costo del granoturco, utilizzato per l’etanolo, è raddoppiato in due anni. L’Agenzia Internazionale dell’Energia calcola che "Se si vuole sostituire il 5% di benzina e di gasolio con dei biocarburanti, occorrerà dedicare il 15% della superficie delle terre coltivabili europee". L’era del petrolio costoso causa un altro danno collaterale: l’esplosione del costo del trasporto.

L’orgia della speculazione: confessione di un economista a Washington: "È follia! Il grano vale oro!" È un altro effetto perverso della crisi dei “subprimes”. Prosciugati dal mercato creditizio, i fondi per gli investimenti mettono le loro pedine sulle materie alimentari. Soia, grano, granoturco, ecco i nuovi valori-rifugio! Il prezzo del riso fa un salto del 31% il 27 marzo 2008, dopo l’annuncio da parte di quattro Paesi della sospensione delle loro esportazioni nel momento in cui le Filippine richiedevano 500.000 tonnellate. "I fondi si riversano, comprano, e conservano", dice un intermediario. Il senatore democratico americano Byron Dorgan spara su "l’orgia della speculazione" che spinge ad aumenti fino al 10% il prezzo dei prodotti alimentari. Walt Lukken, il presidente della Commodities Futures Trading Commissione (CFTC), il gendarme dei mercati delle materie prime, è molto contrariato di questa situazione. A quando un’effettiva regolazione?

Gli effetti della liberalizzazione: “Ci impongono, a noi, avversari peso piuma, di fare un incontro di pugilato contro i pesi massimi sul ring commerciale", confidava, sei mesi fa, Jacques-Edouard Alexis, Primo ministro di Haiti, dimessosi dalle sue funzioni. "Le politiche di liberalizzazione a marcia forzata, raccomandate durante diversi decenni dal FMI e dalla Banca Mondiale, hanno contribuito a rendere i Paesi poveri ancora più vulnerabili", denuncia Sébastien Fourmy, di Oxfam, ed i piccoli agricoltori del Sud si sono trovati svantaggiati causa l’ingresso di prodotti sovvenzionati inviati dai Paesi ricchi (pollo, cereali, ecc.). "Vittime anche dei loro governi che non hanno dedicato (o non potuto) una parte del loro budget alla contadinanza", aggiunge un esperto della FAO. Nonostante le promesse, l’aiuto allo sviluppo da parte dei Paesi ricchi rileva un ribasso dell’8,4% nel 2007 (-15% per la Francia). "L’aiuto dedicato all’agricoltura è 50% meno importante rispetto al 1984", sostiene Claire Meladed, dell’ONG Action Aid . Nel frattempo, La Banca mondiale intende raddoppiare il sostegno all’agricoltura in Africa. Sarà sufficiente?

Gli sconvolgimenti del clima: Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) se ne preoccupa; i cambiamenti climatici nuocciono alla salute ed all’alimentazione. Siccità in Australia o nel Kazakistan, inondazioni in Asia, uragani in America latina ed un inverno record in Cina, disarticolano il Programma Alimentare Mondiale (PAM). Tendenza pesante, visto che l’agricoltura intensiva gioca contro l’ambiente. Achim Steiner, dirigente del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNET), garantisce: "Nei grandi Paesi, si raggiungono limiti in termini di disponibilità di terre arabili e d’acqua, e di riduzione della fertilità del suolo”. Ma resterebbe un margine per i piccoli contadini. "Se si forniscono buoni concimi al 70% delle piccole culture, si potrebbe incrementare la produzione del 20%", nota Gilles Hirzel, della FAO. Senza cedere al ricatto degli OGM...

L’evoluzione dei modi di vita: nutrire ogni anno 60 miliardi di animali per il consumo dell’uomo equivale a produrre cereali per 4 miliardi di abitanti. Rajendra Pachauri, premio Nobel della pace 2007, afferma: "Mangiare meno carne, fa bene al clima." L’arrivo di neo consumatori dei grandi Paesi emergenti complica le cose: "Queste classi medie che consumano sempre più pollo e maiale, sono le stesse che producono i cereali", dice Pascal Lamy, dirigente dell’OMC. "Se i cinesi mangiassero altrettanta carne quanto gli americani, assorbirebbero il 50% dei cereali mondiali" solo per nutrire gli animali da cui produrre la carne necessaria, aggiunge l’ecologo Lester Brown. Inutile, tuttavia, annegarsi nel neo-malthusianesimo. Gli agronomi lo garantiscono: il pianeta potrebbe raddoppiare le proprie produzioni per dare il cibo ai 9 miliardi di esseri umani nel 2050…"a condizione di investire, di innovare, controllare, e riflettere", soffia un diplomatico africano. "E non è una certezza"....

La crisi alimentare richiede risposte immediate ma anche una strategia ambiziosa d’aiuto per l’agricoltura. La Francia intende contribuire attivamente alla risoluzione della crisi. Per fare fronte all’urgenza, intende raddoppiare fin da quest’anno il finanziamento alimentare portandolo a 60 milioni di euro per il 2008, quasi 100 milioni di dollari".

L’aumento del prezzo dei prodotti alimentari ha comportato disordini sociali, ma ha anche offerto una finestra d’opportunità per rivedere le strategie mondiali in materia di lotta contro l’insicurezza alimentare.

lunedì 2 giugno 2008

La regressione civile


2 giugno Tornare al clima di 60 anni fa
Napolitano: basta intolleranza, Italia rischia regressione
ROMA - L'Italia rischia «la regressione civile» se non ferma «fenomeni di intolleranza e di violenza di qualsiasi specie» che si verificano in modo proccupante. Il nostro Paese non può più rinviare nodi sociali, politici, economici istituzionali, perchè rischia «di fare un passo indietro», rischia una squalifica che «non possiamo permetterci». Questo il forte allarme lanciato da Giorgio Napolitano, nella ricorrenza della Festa della Repubblica, con un messaggio radiotelevisivo di tre minuti. Il presidente condivide la preoccupazione di molti cittadini che hanno vissuto con angoscia gli assalti ai campi nomadi, il ripetersi di fenomeni di intolleranza e di violenza in campo politico.

Dallo Stato di Diritto all'involuzione dell'Impero

di Giulietto Chiesa

Qualche tempo fa sui media europei approdò con un certo clamore il politologo americano Robert Kagan, con la tesi - che suscitò stupore e perfino disappunto nei circoli europei filo-americani - dei "due occidenti". Ignorando gli amici e i "troppo amici" europei, Kagan ci diceva, con il tono senza appello dei neo-con statunitensi, che noi europei eravamo fuori della storia, ancorati come siamo ai vecchi valori "liberali" dello stato di diritto.Parlava da "rivoluzionario" - come rivoluzionari sono e si considerano gli uomini del "Progetto per il Nuovo Secolo Americano" - ai rappresentanti di quella che Donald Rumsfeld definì sprezzantemente la "vecchia Europa". Rivoluzionari sono, per definizione, coloro che sostituiscono con la forza ad un sistema di regole - quello che vogliono combattere - un nuovo sistema di regole.
Nel caso specifico il nuovo sistema di regole è quello imperiale. Cioè quello dell'unica superpotenza rimasta sul pianeta, che non accetta più lacci e lacciuoli che la vincolino a regole comunemente accettate, ma che è determinata a stabilire un nuovo sistema di regole sostanzialmente emananti da un unico centro di potere.
E' questo il vero cambio di marcia realizzato dal gruppo di uomini, capitanati da Dick Cheney, che, insieme a George Bush, hanno preso il potere negli Stati Uniti nell'anno di grazia 2000, uno prima del fatale 2001, primo del nuovo secolo, contenitore dell'11 settembre. Un gruppo che non ha alcuna intenzione di abbandonare il campo conquistato.
Ecco, è questa data quella che segna lo spartiacque generale tra il prima e il dopo la rivoluzione. Chi vada a Washington - come è capitato a chi scrive, in qualità di membro della speciale Commissione d'Indagine del Parlamento Europeo sul "presunto utilizzo di paesi europei da parte della Cia per il trasporto e la detenzione illegale di persone" (1) - si sente ripetere in ogni colloquio che la causa inesorabile dei cambiamenti da introdurre nelle regole mondiali è appunto l'11 settembre. Icasticamente, nelle parole di Dan Fried (2), gli Stati Uniti "sono di fronte a una minaccia inedita", e tutti devono prendere atto che "il sistema legale vigente è incompatibile con la battaglia inedita che questa guerra comporta". Con vari e diversi accenti lo stesso tema è emerso nei colloqui che la delegazione europea ha avuto con i senatori Richard Durbin, democratico dell'Illinois e Arlen Specter, repubblicano della Pennsylvania, e con il deputato democratico della Florida, Robert Wexler.
Le priorità dell'opinione pubblica europea - ci fu ripetuto - non corrispondono ai temi principali del dibattito pubblico americano. C'è uno strato "sottilissimo" - aveva precisato Wexler - che la pensa come voi europei, cioè che anche un presunto terrorista ha il diritto di essere giudicato regolarmente, di avere la tutela di un avvocato. Ma per la maggioranza dei cittadini americani la priorità è la sicurezza.
In Europa è cosa scontata definire la tortura come illegale e ingiustificabile, oltre che inutile ai fini dell'accertamento dei fatti. Ma il discorso pubblico americano, anche sui mass media più qualificati, ha mostrato in questi anni smagliature assai gravi proprio in tema di tortura, con autori di rilievo che hanno stabilito distinzioni, a tratti mostruose, implicanti la possibilità della tortura in "determinate circostanze". Del resto accompagnate da dichiarazioni di membri del governo (Rumsfeld e Cheney) e funzionari di vari livelli dell'Amministrazione, che sostengono l'inapplicabilità delle norme di difesa dei diritti umani, nei casi di sospetti terroristi, con l'introduzione di nuove categorie giuridiche come quella di "nemici combattenti", nei confronti dei quali nessun riguardo è dovuto, nemmeno quelli garantiti dalle convenzioni internazionali. John Billinger, consigliere legale di Condoleeza Rice, ha definito lex specialis la Convenzione di Ginevra sul prigionieri di guerra: una "anomalia", cioè non più applicabile dopo l'11 settembre.
E il già citato Robert Wexler ha respinto, con qualche insofferenza, l'obiezione secondo cui le extraordinary renditions potrebbero essere considerate come atti di terrorismo di stato. "Anche se facciamo cose illegali, se facciamo del male - e so che talvolta si tratta di cose terribili - noi non possiamo essere messi sullo stesso piano dei terroristi", ha detto.
Insomma Abu Ghraib, la tortura, le extraordinary renditions le violazioni dei diritti umani, sono incidenti di percorso, effetti collaterali secondari, comunque non perseguibili, perchè chi è impegnato nella lotta al terrorismo internazionale deve avere diritto a una zona d'azione operativa sottratta alle normative dell'era che ha preceduto l'11 settembre. Siamo ormai molto oltre la linea che mantiene gli Stati Uniti al di fuori del Tribunale Penale Internazionale.
E tutto questo, noi europei, sembriamo scoprirlo adesso, mentre era già palesemente visibile nelle settimane che seguirono, appunto, l'11 settembre. Quando, ad esempio, il presidente Bush istituì per decreto i tribunali militari speciali, il 13 novembre 2001. Tribunali che, secondo il giudizio di un autorevole giurista italiano, Antonio Cassese, "hanno riportato indietro di 50 anni la società americana" (3) verso la barbarie giudiziaria. "Malamente assistito da un ministro della Giustizia in pieno panico, il presidente ha assunto poteri dittatoriali" (4), scrisse uno dei giornalisti repubblicani più intransigenti e conservatori. Oggi noi parliamo con qualche angoscia di carceri segrete, e di renditions in Europa e altrove, senza sapere (nessuno dei media principali, statunitensi ed europei ne ha più parlato) che quel decreto è tuttora in vigore, mentre dei suoi effetti nulla sappiamo. Tribunali militari speciali - sarà bene ricordare - che (sulla base di informazioni in possesso del presidente degli Stati Uniti) possono giudicare: a) cittadini stranieri che hanno preso parte, o vi hanno cooperato, a operazioni contro gli Stati Uniti o che abbiano seriamente nuociuto agl'interessi politici ed economici degli Stati Uniti; b) non saranno tenuti a provare la colpa dell'arrestato; c) possono fare a meno dell'habeas corpus; d) possono evitare di formulare capi d'accusa e di renderli noti all'accusato; e) possono privare il prigioniero dell'assistenza di un legale; f) possono celebrare i processi segretamente; g) possono usare prove e confessioni (si sott'intende con l'uso della tortura) non riconosciute valide nei normali processi penali; h) possono condannare a morte anche se i giudici militari non sono "convinti al di là di ogni ragionevole dubbio"; i) possono pronunciare sentenze definitive, senza diritto di appello; l) possono condannare a morte con una maggioranza dei due terzi (due giudici militari su tre).
Sappiamo che una Commissione Militare di questo tipo è in funzione a Guantanamo Bay, non sappiamo se altre ve ne siano e dove, poichè, per l'appunto, tutta questa procedura è rigorosamente segreta. Ci fu, allora, una serie di proteste contro il decreto, e ci furono vaghe ritirate verbali concernenti alcuni dei punti sopra indicati. Ma il decreto non risulta essere stato mai ritirato (5) e cosa sia avvenuto in questi anni non si può che immaginarlo, in attesa di leggere, tra qualche tempo, i documenti desecretati degli archivi.
Sappiamo che, oltre alle carceri segrete fuori dall'Europa (in Afghanistan, in Siria, in Marocco, in Egitto, etc) ve ne sono altre, in località sconosciute, dove sono tenuti in prigionia, dal 2003, ad esempio Khaled Sheikh Mohammed e Ramzi Binalshibh, due dei presunti (e rei confessi, stando alle indiscrezioni fatte filtrare dalla CIA) organizzatori dell'11 settembre. Mai processati alla luce del sole, mai più riapparsi, sempre che siano ancora vivi.
Tutto questo avrebbe dovuto essere noto anche quando, il 4 ottobre 2001, l'allora segretario generale della Nato, Lord Robertson, rese pubblica la richiesta del rappresentante statunitense a Bruxelles (6) di applicare l'articolo 5 del trattato dell'Alleanza Atlantica. Quel trattato appena rinnovato in occasione delle celebrazioni, a Washington, del cinquantesimo anniversario - nel 1999, in piena guerra contro la Jugoslavia - che trasformava la Nato da alleanza difensiva in alleanza "preventiva", e che allargava la sua zona d'azione dai confini dei paesi membri a tutto il pianeta.
A quanto risulta (7), di quella discussione - sempre che ve ne sia stata una - resta soltanto un verbale, e la dichiarazione di Lord Robertson ne costituiscono una "sintesi fedele". Nei suoi otto punti è visibile l'ampiezza degli obblighi assunti dai membri della Nato nell'assistenza agli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo internazionale. Tra essi figura l'impegno a "rafforzare, sia sul piano bilaterale, sia nell'ambito delle competenti istanze della Nato, la condivisione dei dati d'informazione"; il "rimpiazzo di determinati mezzi alleati che siano necessari per sostenere direttamente operazioni contro il terrorismo"; "l'autorizzazione generale ai sorvoli di apparecchi degli Stati Uniti e di altri alleati, conformemente agli accordi richiesti in materia di traffico aereo e alle procedure nazionali, per voli militari legati a operazioni contro il terrorismo"; "assicurare agli Stati Uniti e ad altri alleati l'accesso a porti e aeroporti dei paesi della Nato per operazioni di lotta contro il terrorismo, specificamente per il rifornimento di carburante, conformemente alle procedure nazionali". (8)
Dunque da questo documento emerge che i paesi dell'Unione Europea, membri della Nato, tutti a loro volta membri del Consiglio d'Europa, avevano già dato l'autorizzazione preventiva a quasi tutto ciò che è emerso nelle indagini successive alle rivelazioni sulle carceri segrete e sui voli illegali della Cia in Europa e altrove.
Certo gl'impegni Nato qui richiamati non autorizzavano le violazioni dei diritti umani e della legislazione internazionale da parte degli Stati Uniti e dei loro servizi segreti, ma quanto è finora emerso sia dalla relazione di Dick Marty, per conto del Consiglio d'Europa, sia dalla già richiamata Commissione d'indagine del Parlamento Europeo, numerosi paesi europei non sono stati vittime delle macchinazioni americane, ma ne sono stati partecipi in vario grado. Ecco perchè, fino a questo momento, i governi europei e le autorità europee ascoltate e consultate dalla Commissione hanno o rifiutato di collaborare alle indagini, con vari pretesti, oppure hanno opposto dinieghi e smentite assai poco credibili. Come è il caso, particolarmente, dei governi polacco e rumeno.
Siamo di fronte, con ogni evidenza al dato di fatto che i valori - a parole condivisi, esaltati e pronti all'esportazione, anche con la forza - sono stati violati da una parte (gli Stati Uniti) , sul territorio dell'altra parte (paesi europei), con la connivenza, la collusione e/o la partecipazione diretta dell'altra parte (paesi europei). Gli avversari dell'inchiesta, chiaramente osteggiata dai settori di destra del Parlamento Europeo, di nuovo con particolare veemenza da deputati polacchi, baltici, britannici, tedeschi, affermano che le due commissioni europee (del Consiglio d'Europa e del Parlamento Europeo) non hanno saputo produrre, fino a questo momento, prove inoppugnabili del coinvolgimento dei governi (o di altri livelli delle amministrazioni) nelle renditions . Qualcuno si è spinto, ripetutamente addirittura a ringraziare il Governo americano per aver dato, con le modalità del rapimento, del trasporto fuorilegge degli arrestati illegalmente in paesi in cui notoriamente la tortura veniva applicata, un grande contributo alla sicurezza collettiva europea.
Ma queste tesi, in parte perfino aberranti, a riprova che in Europa vi sono deputati più "americani" degli americani, sono state respinte nettamente dalla Commissione parlamentare europea, che ha votato (con una maggioranza di 25 voti, socialisti, liberaldemocratici, verdi, 14 contrari, 7 astensioni) la decisione di proseguire l'indagine per altri sei mesi, fino al termine del mandato (9). A luglio deciderà l'Assemblea al completo e la conferma della decisione della Commissione appare scontata. Anche perchè il lavoro d'indagine è già andato assai oltre alle supposizioni e agl'indizi.
C'è la documentazione precisa di 1080 voli CIA in aeroporti europei tra l'11 settembre 2001 e la fine del 2005. Per certo 14 paesi hanno ospitato di passaggio renditions illegali. Tra questi la Germania, la Svezia, l'Italia, il Belgio, la Spagna (tutti membri dell'Unione Europea). Due paesi (Polonia e Romania) hanno ospitato, per periodi di tempo ancora da determinare, veri e propri luoghi di detenzione temporanea e illegale di presunti terroristi. Tutti atti in violazione dell'articolo 6 del Trattato dell'Unione così come della Convenzione Europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Si hanno riscontri precisi di circa 30-50 sequestri di persona e di successive renditions . Solo in un caso la magistratura (italiana) ha svolto un'indagine completa, individuando e spiccando mandati di cattura contro 22 agenti della CIA che operarono a Milano per prelevare l'imam Abu Omar. Ma anche in questo caso resta da accertare a quale livello si è spinta la complicità del governo di Roma.
In ogni caso le testimonianze dei rapiti e torturati, e dei loro avvocati, e di numerosi rappresentanti di organizzazioni non governative, come pure di alti funzionari (americani ed europei) che hanno deciso di rompere il muro del silenzio non sono supposizioni. Vale questo per le deportazioni di due cittadini egiziani, Mohammed Al Zary e Ahmed Giza, dalla Svezia all'Egitto; vale per Abu Omar; per Maher Arar, cittadino canadese arrestato a New York e inviato ad Amman, via Roma Ciampino, per essere poi torturato per oltre 10 mesi in un carcere siriano; vale per il cittadino tedesco di origine libanese, Khaled el Masri, catturato in Macedonia e trasferito in Afghanistan per essere torturato.
Si potrebbe continuare e si continuerà a cercare. Ma una cosa l'abbiamo già scoperta: che molti governi europei si sono comportati, all'insaputa dei loro elettori, come delle colonie americane, ovvero dei satelliti di Washington. Siamo ormai tornati nell'era della "sovranità limitata" di Leonid Brezhnev.

di Giulietto Chiesada
Le Monde Diplomatique